Interpretazione e sovrainterpretazione dell’architettura

Nel libro di Umberto Eco “I limiti dell’interpretazione”, pubblicato nel 1990, viene ricordato di come sia fondamentale lo stretto rapporto tra il significato letterale del testo e le sue possibili interpretazioni. Il libro di Eco è un saggio di semiotica ed ermeneutica e la sua lettura è poco diffusa tra gli architetti, a nostro avviso colpevolmente, perché riteniamo che chiunque si occupi di struttura, forma o morfologia, sia essa inerente la scrittura o più semplicemente la pittura, non può essere ignorato da chi si occupa di forma, struttura e morfologia dell’architettura.
Temi e linguaggi sono legati da una stretta similitudine e soprattutto si sono influenzati nel loro procedere, crescere e trasformarsi nella storia. Ogni periodo storico è studiato in tutte le sue componenti culturali, in tutte le arti che lo contraddistinguono, in tutto ciò che in sostanza lo caratterizza e lo renda univocamente riconoscibile.  Il Rinascimento o l’illuminismo vengono, ad esempio, studiati ed analizzati, sia per ciò che attiene le arti figurative: pittura, scultura, architettura ma anche per la letteratura, la musica e  per il pensiero filosofico che ha influenzato ed influenza le culture successive.
Ciò vale per ogni periodo e per ogni movimento artistico storicizzato ma vale, o varrà,  per i movimenti artistici ed in genere culturali contemporanei.
Per Umberto Eco i limiti dell’interpretazione sono riassumibili in ciò che “non può essere” oppure rappresentare il significato di un testo, lasciando tra le possibili interpretazioni tutte quelle che posso essere considerate possibili a cominciare dalla quella meramente letterale.
Traslando questo principio alla critica architettonica i “limiti” diventano tutto ciò che lo spazio architettonico non può essere o divenire, fatto salvo ciò che è o potrebbe essere.
Un qualsiasi edifico, progettato per una  destinazione, potrà essere interpretato, secondo Eco,  come qualsiasi cosa, escluso ciò che contraddice la sua forma o funzione.
Un edificio residenziale non potrà mai essere un campo di calcio ma, di contro, una chiesa potrà assumere la funzione di una palestra, un centro conferenze o una sala per concerti. Molti sono gli esempi a riguardo nel riutilizzo temporaneo o permanente di architetture sia storiche che contemporanee.
In conseguenza di ciò, i limiti dell’architettura contemporanea, perdendo la riconoscibilità tra forma e funzione, tanto da disorientare il fruitore nell’uso o contemplazione dello spazio architettonico.
In un’altra raccolta di saggi “Interpretazione e sovrainterpretazione”, lo stesso Eco corre ai ripari: se le interpretazioni di un testo sono variabili e il limite è solo ciò che contraddice il testo letterale: il “non senso”, allora ogni interpretazione è legittima ed ha uguale dignità, compresa quella letterale. Nel nostro caso, diventerebbe legittimo trasformare ogni chiesa in una sala Bingo, ogni palestra in una biblioteca, ogni fabbrica in un supermercato e così via. Il rimedio, per Eco, è l’Autore Modello, quello che accompagna il lettore a scegliere, tra le possibili interpretazioni, solo quelle che appartengono alla sua sfera culturale o per dirla come Prestinenza Puglisi “[…] colui che organizza il testo al fine di sollecitare certe interpretazioni e non altre. Chi scrive, in altre parole, si immagina il proprio lettore e lo conduce per mano attraverso il racconto”.
In questa sede, ciò che noi teniamo a sottolineare, non è l’interpretazione di un testo o di uno spazio ma il suo “limite” come strumento di esclusione del “non senso”.
Il limite che ci spinge a discernere la buona dalla cattiva architettura, l’opera d’arte  dal “Kitsch” o peggio dalla banalità. Appare fuori di ogni dubbio, ad esempio, che un opera pittorica di Malevich, per astratta che sia (“Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918), per suprematista che sia è e sempre sarà, oltre che un opera d’arte, un quadro. Lo stesso dicasi per il museo Guggenheim di Bilbao di Frank O. Gehry o per la Casa sulla cascata di LL. Wright, il primo un museo e la seconda una villa, per citare gli esempi più famosi. Che sia una caverna, una capanna, un iglù o semplicemente villa Savoye, non sarà per noi difficile distinguerne una casa.
Lontano dai limiti del “non senso” questi manufatti rientrano appieno per volontà dai costruttori, dei proprietari o degli architetti che li hanno costruiti, nel significato semantico di un edificio residenziale; usi, costumi o periodi culturali che li hanno generati non ne hanno, nel tempo o nello spazio, modificato “il senso”, la riconoscibilità del loro valore formale.
Nell’era contemporanea, nell’ampliamento delle conoscenze e capacità tecnologiche, la ricerca costante del superamento dei “limiti” spinge sempre più la lettura del “senso” della forma a limiti altrimenti irraggiungibili, sia nella rappresentazione con l’introduzione dell’architettura cosiddetta digitale che nella realizzazione, attraverso l’utilizzo di materiali e tecniche innovative.
L’allontanamento del limite è condizione necessaria ma non sufficiente, per usare una metafora matematica, per la crescita culturale di una civiltà. La Grecia del IV secolo a. C. era di sicuro all’avanguardia nella ricerca del superamento dei propri limiti culturali e filosofici pur avendo i noti limiti tecnologici di una civiltà proto-rurare.
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Il dio egizio Rha era rappresentato nel XX sec. a. C. come un uomo dalla testa aquilina sormontata da un cerchio, venerato da una civiltà che non conosceva l’uso della ruota ma riuscendo a costruire  le più grandi opere architettoniche che l’umanità abbia mai realizzato sino al XVIII sec. d. C., mostrando così di non riconoscere nel cerchio il significato semantico della ruota pur dandone un valore ancestrale.
Il limite all’interno del quale si configura il significato semantico dell’opera o dello spazio, se da un lato rassicura il lettore o nel nostro caso il fruitore, ne riduce lo stimolo alla sua naturale crescita spirituale ed aspirazione intellettuale.
Ritornando allo lettura del testo,  nel leggere un articolo di cronaca, ci accorgiamo che questo vale per il solo significato letterale, un brano di un romanzo di Jules Verne, di contro, si pone evidentemente obbiettivi diversi. Nel primo caso l’autore, descrive un evento realmente accaduto, caratterizzandolo aggiungendo o sottraendo particolari descrittivi limitatamente alla sua capacità narrativa o correttezza professionale. Nel secondo, se si utilizza ad esempio il romanzo “Ventimila leghe sotto i mari”‘, l’autore descrive un mondo che egli stesso non ha mai visto e che si materializza nella mente del lettore in maniera diversa secondo il proprio vissuto o come si usa comunemente dire: retroterra culturale. In altri termini, il primo autore cercherà in tutti i modi, attraverso il testo, di limitare o concentrare la nostra attenzione a ciò che egli ha visto o peggio a ciò che egli vuole farci credere di aver visto. Il secondo cercherà di “stimolare” la nostra fantasia aprendo e rincorrendo quei limiti che solo l’immaginazione può superare.
Nella critica architettonica avviene lo stesso: al testo sostituiamo semplicemente lo spazio; per esercizio meramente accademico forniremo un esempio, pur consapevoli della suo opinabilità e che la mera scelta è limitata, è proprio il caso di dirlo, ad una semplificazione funzionale al nostro discorso.
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Un tempio greco del IV o III sec. a. C. per magnifico che sia, é per noi rassicurante, nulla del suo spazio sarà per noi motivo di turbamento. Sappiamo che, anche se il tempo le ha ormai cancellate, le sue parti mancanti erano nel posto in cui noi ci aspettiamo siano state  e soprattutto della forma di cui noi sappiamo essere state. Nulla ci impedisce di affermare che al centro della cella ci sia stata una statua delle fattezze della divinità a cui il tempio era dedicato, così come nulla ci potrà mai dissuadere dal fatto che, anche se ormai persa, tra due triglifi era inserita una metopa decorata ed al disopra della trabeazione, sul prospetto principale, sicuramente si erigeva un frontone.
L’architettura classica è per sua definizione un linguaggio, non lascia nulla all’immaginazione il suo scopo era semplicemente quello di insegnare alle popolazioni del mondo intero e a tutte le generazioni successive cosa é la perfezione, cosa è il bello. I limiti non li supera, l’impone.
Trasferendoci qualche migliaio di chilometri verso est, dalla Grecia antica a Giza, riconosciamo tre edifici, simili tra loro ma di differenti grandezze, disposti in modo apparentemente caotico, privi di qualsiasi decorazione o ornamento e, contrariamente ad altri edifici dell’area, privi di qualsiasi iscrizione. Tutti e tre gli edifici rappresentano una figura geometrica elementare: la piramide. Enormi, queste costruzioni, da millenni hanno scatenato le più assurde teorie: su come siano state costruite, sul perché siano state costruite e perfino sul quando siano state costruite.
Che le considerassimo semplicemente tombe o gli dessimo i più improbabili significati simbolici o ancestrali, le piramidi di Giza ci producono uno stato di sicuro turbamento, ed è questo, crediamo, sia stato il fine che si erano proposti i loro costruttori. Quale è in questo caso il limite all’interno del quale si inserisce il significato semantico dell’opera? La risposta è nel nostro vissuto, nel nostro retroterra culturale, il solo limite a quel linguaggio é la nostra immaginazione. Nel tempo le piramidi hanno mantenuto il loro significato semantico, intrinseco nelle loro forme e soprattutto nelle loro dimensioni. Non ne abbiamo un’immediata coscienza, ne ricerchiamo parti o rapporti simbolici sia nel contesto morfologico del sito ma ci spingiamo anche nello spazio cosmico. Per comprenderne il significato simbolico formale non ci possiamo dare alcun limite.
Tali osservazioni valgono per ogni opera, sia essa letteraria, artistica o architettonica e sono applicabili ad ogni periodo storico culturale.
Il linguaggio è cresciuto con la civiltà. Forme, strutture e temi si sono evoluti all’evolversi delle culture nella storia. La struttura semantica dello spazio architettonico, nelle sue infinite varianti o consolidate invarianti, ha accompagnato il cammino dell’uomo, il ruolo svolto da quest’ultimo è stato quello di individuare per poi cercare di superare quei limiti all’interno dei quali si configurava il pensiero immanente, la materia, lo spazio, il “senso”, al di fuori fluttuava il trascendente, l’imformale, il “non senso”, l’immaginazione.
Anche noi, oggi, ci misuriamo con i nostri limiti, diversi da quelli passati ma egualmente apparentemente irraggiungibili. Compito del ricercatore non è superarli ma tentare sempre di raggiungerli. 

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