Uomini che odiano le donne.

Ogni giorno leggiamo di uomini che odiano le donne, di uomini che picchiano donne, di uomini che violentano donne, di uomini che uccidono donne. Che siano compagne, madri, figlie o semplici passanti, ogni giorno accade che un uomo manifesti il suo odio per una donna, nella maniera più brutale, nella maniera più vigliacca, nella maniera più becera.

Questo accade ad ogni latitudine, in ogni angolo del mondo: nelle grandi città metropolitane, nei piccoli villaggi campestri. Se esiste una cosa che accomuna tutte le civiltà moderne è il risentimento verso le donne. Un risentimento tollerato, giustificato, teorizzato, talvolta anche idealizzato. Sin dalle origini della civiltà contemporanea, presente in tutte le religioni monoteiste, la figura della donna è una figura subordinata alla volontà, prima del padre, poi del marito e prima ancora di tutto alla comunità stessa. In Italia, ad esempio, la violenza sessuale, fino a qualche decennio fa, era considerata un delitto contro la società e non contro la persona.

Così come lo era il “delitto d’onore”. In punto di diritto l’omicidio di una donna accusata di adulterio era considerato attenuante specifica. In senso più esteso il codice Rocco prevedeva che chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella “nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale” ricevesse pene inferiori a quelle del semplice omicidio. Non si capiva e non si capisce perché nella formula era prevista l’esclusione della madre.

Così come esisteva il matrimonio riparatore. Chiunque abusasse di una minore, sposandola estingueva la pena di violenza sessuale. Altra chicca del diritto era l’adulterio, punito solo se commesso da una donna e non da un uomo. Appare chiaro che il combinato disposto di queste sole tre leggi descriveva una società maschilista, patriarcale, dove la donna ricopriva un ruolo marginale e sessualmente represso. Dagli anni ’70 in poi ad una ad una queste leggi sono state abrogate. Lasciando dietro di se, purtroppo, l’odio per le donne che le aveva generate. Non vogliamo ripercorre gli anni di lotta dei movimenti femministi.

Ci vogliamo occupare, invece, del radicamento nella nostra società di questo odio latente e a volte manifesto in maniera insopportabile. Nelle religioni monoteiste le donne sono da sempre considerate simbolo di impurità. A loro è vietato dare l’eucarestia, è vietato entrare in una moschea, è vietato leggere pubblicamente la Torah.  E pensare che nei culti pagani ritroviamo sacerdotesse, Dee, e più lontano nei secoli il simbolo stesso della vita. La prima scultura sacra esistente è una Dea: la dea della fertilità (Ale) Madre della vita!

La moderna genetica conferma questo approccio culturale avuto nel paleolitico. Una parte del nostro DNA, quella parte che indica la nostra origine (il DNA mitocondriale), fa risalire la discendenza genetica non all’uomo ma bensì alla donna. Il mitocondrio maschile, infatti, resta fuori dall’ovulo durante la fecondazione e non viene trasmesso al feto che riceve, invece, quello della madre. Non discendiamo da Adamo ma da Eva. Mater semper certa est. Altro aspetto che contraddice, nel rapporto uomo – donna, le culture teologiche arcaiche da quelle moderne è il rapporto con il corpo.

La nudità, la bellezza del corpo era l’esaltazione della purezza stessa della donna. Le Dee, a seno nudo o completamente nude, talvolta sedotte da altri dei o perfino da animali, erano e restavano sacre. Oggi la verginità, la castità, spesso ricoperta con casti abiti rappresentano il canone morale in cui le donne sono costrette a vivere.

Vergine e Santa si dice. Sarà, ma non Dea.

Le culture con tradizioni pagane, da questo punto di vista, sono sempre state all’avanguardia riguardo l’emancipazione della donna nella società. Sacerdotesse, guerriere, Dee erano alla testa delle battaglie. Si immaginavano popoli di sole donne, le Amazzoni; si temevano popoli di sole donne. Donne erano mostri capaci di pietrificare con lo sguardo, temibili al pari dei Titani. Donne erano le sirene, pericoli dei mari, più dello stesso Nettuno, più dello stesso Eolo. Donne e madri erano le consigliere degli eroi. Per loro si dichiarava guerra, per loro si bruciavano città, per loro si combatteva, a loro veniva dedicata la Vittoria (Nike, Dea anche questa).

Ma quando l’uomo ha iniziato ad odiare le donne? Molto probabilmente da quando, col diffondersi del Cristianesimo in occidente, le donne vennero considerate causa del degrado della società, individuata nella lussuria e nella libertà sessuale della civiltà pagana. La poligamia, la promiscuità, e in un certo senso la libertà sessuale a cui anche le donne partecipavano, divenne nel primo medioevo sinonimo di peccato. Alle donne venne tolto il diritto all’istruzione, la partecipazione attiva ai riti religiosi, a ricoprire ruoli principali nella vita politica e quando diventavano regine per diritto ereditario, non di rado venivano affiancate immediatamente da mariti scelti da altri a cui dovevano giurare fedeltà e obbedienza.

Dal buio del primo Medioevo questo stato si protrasse per tutti i secoli successivi fino ai giorni nostri. Illibate, vergini, e in alcune culture private del clitoride, le donne hanno pian piano iniziato a riprendersi il loro ruolo nella società contemporanea di radice giudaico-cristiana o islamica che sia. Bruciate vive per stregoneria, lapidate per adulterio, il loro lento riscatto è approdato ai giorni nostri. Le ragioni dell’odio le ritroviamo nella frustrazione del riscatto. Per dirla tutta nella difficoltà dell’uomo contemporaneo di misurarsi con questo. Nella cronaca ritroviamo i particolari simbolici di questa frustrazione. Relazioni finite, amori non corrisposti, comportamenti ritenuti libertini, gelosia, sono il comune denominatore del risentimento verso le donne.

L’uomo moderno, anche se non lo ammetterà mai, non accetta di non essere stato l’unico uomo della “sua donna”. L’uomo moderno, qualunque sia la sua estrazione sociale, il suo grado di istruzione, non ammetterà mai di essere rifiutato, tradito, lasciato. Che sia il passato, il presente o il futuro, l’uomo contemporaneo vive il complesso freudiano del tabù. Più crudelmente il complesso fallico del suo io. Ricerca nel suo modello ancestrale la clava, unico strumento di sottomissione della donna, la forza, la violenza.

Dal semplice apprezzamento allo stalking, oggi le moderne generazioni considerano il corpo della donna il parco giochi negato da un infanzia e un vissuto complesso, dove il timore di divenire essi stessi oggetto di gioco, spingono l’Io a considerarsi soggetto attivo della visione misogina del mondo, trasferendo alla prevaricazione sul “genere” la frustrazione del proprio Io. Non è un caso che, rifugiandosi nel branco dove ruoli e regole sono predeterminate, vengono elaborate e messe in atto le peggiori bestialità. Disinibiti, incoscienti e oltre ogni limite agiscono. Prima sui Social Network, poi nel territorio che marcano, ed infine di nuovo sui Social Network condividono le immagini delle loro azioni,comunicando al mondo misogino che anch’essi ne fanno parte.

Non è il solo gesto che placa il desiderio frustrante ma é la comunicazione al mondo che allevia il dolore inconscio. Non c’è consapevolezza del gesto perché non c’è conoscenza di se stessi. Si partecipa alla lapidazione per essere sicuri di non diventarne oggetto.

É la paura di essere “oggetto” che spinge i giovani, gli adulti, gli uomini, in generale, a divenire “soggetto”. Semplice, inarrestabile paura. Eppure basterebbe che si cibasse del frutto della conoscenza. Ve lo ricordate? <e il Signore Dio impose all’uomo questo comando: “Di ogni albero del giardino puoi mangiare a sazietà. Ma in quanto all’albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, poiché nel giorno in cui ne mangerai ’certamente’ morirai” > (Genesi 2,16)

Non siamo morti, anche il Dio ebraico non mantiene le promesse. Fummo spinti da una donna a farlo, a cibarci di conoscenza, e solo coloro che si cibano di conoscenza saranno sempre grati alle donne amandole.

La prossemica ai tempi dei Social

Mi reputo essere tra i primi a cogliere l’importanza e le potenzialità della diffusione dei Social Network. Un primato che oggi non rivendico con orgoglio. Avrei dovuto capire, da subito, il pericolo che questi costituivano nello sviluppo di una generazione privata degli strumenti di crescita cognitiva e deviata nella costruzione di modelli di aggregazione sociale.

Mi sono lasciato distrarre dalla ricerca e analisi di strutture e sistemi di sviluppo antropico basati su principi insediativi, morfologie sociali che trovavano nello spazio fisico, reale, materiale, il campo in cui si inveravano le relazioni umane. Anni persi.

Mentre costruivo i miei modelli basandomi sullo studio antropologico dello spazio sociale, le relazioni umane trascendevano. I luoghi fisici, immanenti, perdevano e continuano sempre più a perdere la loro capacità intrinseca di condizionamento della psiche. Che siano spazi antropici o naturali non hanno più nessuna capacità di condizionamento. Il “genius loci”, lo spirito del luogo, è svanito come tutte le figure ed immagini che ad esso richiamano.

Viviamo, perché tutti ne subiamo il condizionamento, nello spazio immanente dei Social Network, dei servizi di messaggistica, nei gruppi di Chat. Ci nutriamo di “Like”, di visualizzazioni, di condivisioni, di retwitt, di commenti, di emotion. Comunichiamo attraverso di essi, socializziamo attraverso essi, giudichiamo attraverso essi, esprimiamo i nostri sentimenti attraverso essi.

Milioni di anni di evoluzione, nei quali il linguaggio del nostro corpo si è modificato: il sorriso, lo sguardo, la risata, il pianto, la rabbia, la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio, la carezza. Figure semantiche rappresentative del nostro “io”. Relazioni che si costruivano attraverso la capacità di comunicare con il nostro corpo, la capacità di leggere i messaggi trasmessi dagli altri soggetti. Una relazione era lo scambio non codificato di informazioni, emozioni, lette dagli strumenti cognitivi dell’individuo che ne percepiva sostanza, sfumature, essenza. Lo sviluppo cognitivo dell’individuo era condizione necessaria alla lettura dell’ambiente e delle forme di comunicazione che in esso avvenivano.

Con la parola, il diffondersi del linguaggio, il dare un significato semantico alla costruzione fonetica, l’uomo non modificò lo strumento di lettura delle iterazioni sociali. La verità, la colpa, il comportamento, erano accertati dallo sguardo, e non dalla costruzione del pensiero trasmesso attraverso la parola.

Anche la “retorica” necessitava di spazi simbolici (palco, tribuna, altare, pulpito) ed era sempre accompagnata da gesti ed espressioni del corpo. Lo stesso Cristo alzò le braccia invocando il Padre e, benedicendo gli apostoli, ascese al cielo (Luca 24)

[50]Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 

[51]Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 

Solo con l’invenzione della scrittura, l’uomo si dissocia e si astrae dalla contemporaneità del significato semantico del linguaggio fonetico e del proprio corpo. Per millenni, però, la scrittura è l’impronta del gesto che resta permanente nello spazio; materica, fisica. Cosi come è permanente per millenni l’impronta delle proprie mani su una roccia o la rappresentazione simbolica di gesti compiuti.

L’arte stessa nasce come proiezione spaziale e figurativa della vita conscia o inconscia del proprio autore.

E’ una rappresentazione, una trasfigurazione, un’astrazione di un mondo fisico reale. E’ materia!

La musica, la poesia, il teatro, sono proiezioni simboliche di un mondo reale, uno stato psichico, condizionato o condizionante; nulla è lasciato al caso. La prossemica, spazio fisico in cui la psiche esercita il suo controllo, cedendo e concedendo, negando e difendendo, le iterazioni con gli altri individui, è anch’esso uno spazio reale. I gesti, i comportamenti compiuti in questo luogo sono riconoscibili e riconosciuti, espressioni di emozioni, stati d’animo cristallizzati ma non codificati dalla crescita della cognizione dell’individuo, ricchi di variabili semantiche, spesso contraddittorie dov’è il “no” vuol dire “si”, il “si” vuol dire “no”, il “forse” vuol dire “mai”. il “mai” vuol dire “adesso”. Una moltitudine di combinazioni, invarianti, variabili, allusioni, riferimenti. Vivere in questo mondo, in questo spazio complesso, mutabile,  come il comportamento, condizionabile come la coscienza, ha permesso la costruzione della personalità dell’individuo, della struttura sociale in cui questa si manifesta, ne permette il riconoscimento dei limiti, l’identificazione del ruolo da occupare nel quale esprimere appieno il proprio potenziale. Questo spazio oggi non esiste più. Non è mutato, è altro. Più precisamente non è più utilizzato. La costruzione di relazioni umane avviene altrove, avvero l’individuo cerca di trasportale altrove in un luogo che crede e spera di controllare, ma non è cosi.

Un prigioniero conosce bene la sua cella, soprattutto se è detenuto da molto tempo. Ne conosce ogni angolo, ogni parete, ogni oggetto in essa contenuto, nel tempo trascorso ha imparato a riconoscere, conservandone memoria, anche gli odori dei singoli elementi che la compongono, ne ha assunto esso stesso l’odore e talvolta il colore. Un prigioniero ricostruisce il suo spazio con la materia che lo circonda: carezza le pareti, le annusa e fa lo stesso creando un legame con ogni altro elemento materiale presente in quello spazio: tavolo, sedia, letto, coperte. Un individuo con problemi psichici fa di più: trasforma quello spazio nel suo subconscio ed allora tenta disperatamente di modificarlo radicalmente, cercando di demolirlo talvolta, altre trasformandone gli elementi in narrazione del proprio vissuto incidendo le pareti con disegni, segni e simboli spesso irriconoscibili se non a se stesso.

L’immagine che ne viene è quella dell’individuo che cerca di ricostruire comunque una relazione con l’ambiente che lo circonda. Questa esigenza è ancestrale. Un archetipo precostituito nella memoria genetica dell’individuo. I social ripropongono questo modello presentato come rifugio ma sono nient’altro che prigioni. L’approccio non è mai traumatico, il condizionamento è, invece, progressivo.

Lentamente l’individuo inizia la scoperta del nuovo spazio, apparentemente lo controlla, gli vengono offerte delle scelte tra una moltitudine di variabili. La scelta di opzioni rassicura l’”IO”: le decisioni fatte consapevoli o inconsapevoli offrono la possibilità di creare un immagine proiettata della propria personalità. In alcuni prevale il narcisismo (esaltando il proprio EGO), in altri “la maschera” (esaltando il propio SUPEREGO). Entrambi hanno avuto, o meglio, hanno creduto di scegliere chi essere.

La detenzione in una prigione ci da il tempo di riflettere su noi stessi, sul perché siamo finiti li, sui nostri sbagli, sulla vita che abbiamo trascorso e su quella che abbiamo perso. Qualunque sia la nostra visione del mondo, la nostra interpretazione dei fatti avvenuti, la costrizione ci induce alla lettura introspettiva della nostra personalità. Un rifugio è altro. Lo costruiamo con la consapevolezza delle nostre paure, delle nostre debolezze, della capacità che abbiamo di affrontarle e di viverle. La costruzione di un luogo di auto-costrizione è quanto di più lontano possa esserci dalla volontà di confrontarsi con se stesso, le proprie paure, i propri mostri.

I Social Network permettono, offrendo l’illusione di uno spazio “altro”, la costruzione di nuove e soprattutto diverse relazioni, usando strumenti, questa volta codificati, di iterazione sociale.

Gli approcci sono disinibiti, i dialoghi impersonali. Il rifugio offre l’anonimato, la maschera, l’esaltazione dell’ego. Il rifugio protegge e consente all’individuo di agire, nel costruendo nuovo spazio prossemico. Il dialoghi informali tra sconosciuti ne sono testimonianza. Chiedere “chi sei?” ad uno sconosciuto è dargli la possibilità di fare una narrazione di ciò che egli avrebbe voluto essere o peggio vorrebbe che tu pensassi sia. Ciò che sai di lui, infatti, è solo ciò che egli ha detto di essere, il perché e cosa egli sia veramente non ci è dato sapere con gli strumenti che in milioni di anni abbiamo costruito. Una foto, un avatar, una descrizione rappresentativa della propria personalità (sesso, genere, città natale, nickname, studi fatti) sono le uniche informazioni di cui disponiamo e possono essere tutte false.

Se è vero che pensiamo di essere nel rifugio che abbiamo noi stessi costruito è anche vero che interagiamo con persone che affacciandosi lo fanno coperti da una maschera. Questo nuovo spazio, questo nuovo luogo è privo di elementi riconoscibili ai nostri sensi, non ci sono incisioni, non c’è odore e soprattutto non c’è luce. Al buio e privi di sensi di riconoscimento cognitivo iniziamo nuove relazioni, la coltiviamo, le preferiamo a quelle tradizionali appartenenti allo spazio prossimale reale. Il rifugio ci conquista, crediamo, anzi siamo convinti, di averne il pieno controllo.

Nella comunicazione non verbale sui Social Network prevale il “like”. Un tempo il “pollice verso” era prerogativa dell’imperatore, decideva vita o morte, cosi come il braccio teso prima dell’incontro durante il saluto, per alcuni ultimo, dei gladiatori “Ave imperator, morituri te salutant”, rappresentava la consapevolezza della propria sorte. Quale uomo sano di mente vorrebbe entrare in una arena con la consapevolezza di essere giudicato, nella ricerca di ottenere da infiniti imperatori l’approvazione del proprio pensiero, della propria immagine, del proprio gesto?

Crediamo di poter scegliere i nostri interlocutori, il modo con cui relazionarci ad assi. Possiamo fare, dire ogni cosa ci passi per la mente. Abbiamo raggiunto il Nirvana. Ma non è cosi!

Abbiamo perso, semmai l’avessimo avuta, la cognizione di come si costruiscono le relazioni umane.

I Social Network possono, infatti, illuderci di vivere una vita e di usare diversi modi di relazionarci con gli altri, ma non ci rendono scintoisti, non ci elevano lo spirito, non ci trascendono, semplicemente ci regrediscono. Regrediamo la capacità cognitiva della costruzione delle relazioni sociali. basate su ciò che vorremmo che gli altri pensassero fossimo. In maniera bilaterale le relazioni diventano irrilevanti.

Come irrilevanti sono i comportamenti che assumiamo nella vita reale in attesa di rifugiarci nel nostro mondo pre-cognitivo.

Non è un caso che ogni giorno vengono riscontrate, anche in soggetti apparentemente lontani da condizioni sociali condizionanti, patologie psichiche atipiche se non di traumi importanti. Ecco quindi aumentare sempre più soggetti istrionici, afefoboci e soprattutto parafiliaci. Il sesso infatti, nella sua accezione deviante e patologica, e non di genere a cui riconosciamo piena legittimità, rappresenta il lato oscuro con cui non riusciamo più a rapportarci. La promiscuità sessuale, così come l’abuso sessuale, la violenza sessuale, la pedofilia, è praticata spesso senza la consapevolezza dell’atto in se. Viene talvolta addirittura rivendicata: non è l’atto che provoca piacere ma la sua riproposizione nello spazio sociale “parallelo”: il Social. E’ questo spazio parallelo, appunto, che ci rende bilaterali, dissociati, borderline. Sdoppiamo la nostra personalità, il nostro io, siamo costretti a farlo poiché viviamo intensamente due diverse vite con modelli, strumenti e fini differenziati. Impossibile da gestire, imprevedibili le conseguenze. Ogni giorno lentamente perdiamo di vista il lavoro immenso che ci hanno trasmesso i nostri antenati attraverso migliaia di anni di evoluzione. Non ci riferiamo ai modelli sociali, alle regole di convivenza, alle leggi morali ma alla capacità di crearle, di trasformarle, di infrangerle consapevolmente alle conseguenze che questo implica.

Come ogni esploratore del proprio tempo, ognuno di noi ha il diritto di percorrere qualsiasi sentiero, impervio che sia, ha il diritto di scegliere dove fermarsi, dove dirigersi. Ha il diritto di decidere di continuare la propria strada o di tornare indietro. Anche io come tutti noi ho percorso sentieri oscuri, ho costruito rifugi e sono stato imprigionato. Ma ovunque sia stato, ovunque abbia vissuto ho sempre creduto che le vie di fuga debbano essere spazi aperti, porte che si aprono, nuovi viaggi da compiere, difficoltà da incontrare con la consapevolezza che le relazioni umane sono e saranno sempre vissute nella prossimità del mio spazio reale. Qualunque sia la prigione che un giorno mi costruirò ne cercherò sempre la via di fuga come mi sento sussurrare dai nostri antenati.

Ricordatemi, semplicemente ricordatemi…

Tra vecchie foto di famiglia mi sono imbattuto in questa.Un ragazzo di poco meno di vent’anni. Un berretto con su scritto un numero 69. Una divisa da soldato. Un selfie di 100 anni fa. 

Poco prima di partire per la grande guerra (1915/1918),, questo ragazzo si fa scattare la sua unica fotografia. Una foto che è passata da mano in mano per un secolo, custodita con amore e cura dai suoi genitori, poi dai suoi fratelli, dai figli dei fratelli, dai figli dei figli dei fratelli, dai figli dei figli dei figli dei suoi fratelli. Un ricordo di famiglia, da mostrare con orgoglio, un ragazzo, un soldato del 69° reggimento “Ancona”, morto come tanti altri suoi compagni senza aver, molto probabilmente, compreso il perché del suo sacrificio. Chiamato ad uccidere è stato ucciso da un altro ragazzo come lui.

Guardo e riguardo i suoi occhi, il suo sguardo e cerco di cogliere somiglianze lontane, in fondo un po del suo sangue scorre nel mio. Cerco di immaginare il suo pensiero, le sue consapevolezze e mi rendo conto, attraverso i suoi occhi che non ci sono sogni, illusioni, speranze. Le foto, a quei tempi erano rare, e le occasioni per farle dovevano essere eccezionali. Farsi una foto ritratto (selfie) a diciassette, diciotto anni, vestito di tutto punto da soldato nel 1916-1917 non era, per chi se la faceva, un evento piacevole, seppur eccezionale.

Oggi miliardi di foto (selfie) invadono i nostri telefonini, i nostri PC, i nostri Tablet. Tette, addominali, sorrisi, bottiglie di birra, canne, occhi lucidi ma non di commozione, ragazzi e ragazze immortalati nei bagni, in auto, al tavolo di un locale alla moda. Orgogliosi e narcisisti, illusi di essere immortalati (andare-oltre la morte, far diventare eterno – vocabolario. Treccani N.d.a.) di lasciare ai posteri un ricordo vacuo di se stessi, di essere amati, ammirati, da amici, parenti, e sconosciuti. Inconsapevoli che quelle immagini dureranno poco più di qualche ora nel ricordo dei tanti, ripropongono se stessi in pose più spinte, in azioni più audaci, in ambienti più assurdi, Ma niente: l’oblio prevale, il superfluo si dilegua. Illusi.

Nei primi mesi di guerra erano morti centinaia di migliaia di giovani e il 69° Reggimento fanteria “Ancona” era stato più volte decimato. Venne nei tre anni di guerra ricostruito 6 volte. 180.000 ragazzi ne avevano fatto parte. Non so se lui fu tra i primi o tra gli ultimi a morire, le notizie sono scarse. 

Guardo e riguardo la foto, ne sono completamente assorto, cosa è che pensava? Penso e ci ripenso, notte e giorno e come per magia, in un viaggio nel tempo una voce mi sussurra: “Ricordatemi, semplicemente ricordatemi…”. 

Ecco dopo 100 anni sei di nuovo qui… tra i tuoi coetanei, bello come il sole, narciso, tu si che sei eterno… tu si che sei stato ricordato … per cento anni! 

Il Corpo

Otzi aveva circa la mia età quando stava attraversando le Alpi tra l’attuale confine italo-austriaco, nei pressi del Lago di Vernago. L’ultimo suo pasto era stato a base di carne di cervo. Soffriva di intolleranza al lattosio e di artrosi, ma questo non gli impediva di percorrere lunghi viaggi a piedi. Inseguito, braccato da alcuni uomini, cercava di sfuggirgli, scegliendo un percorso arduo e pericoloso. Lo avevano ferito ad una spalla, una freccia conficcata nei tessuti molli, sanguinava, i compagni lo avevano lasciato indietro e si erano dati alla fuga.
A circa 3200 metri di altezza, il tempo non era certo mite, anche se si era d’estate. Pantaloni e scarpe fatte con pelli di animale erano l’unica protezione contro il freddo. Per difendersi e anche per cacciare un’ascia in bronzo e un arco con sole due frecce. Il suo corpo era pieno di tatuaggi; ma nessuno raffigurante animali e segni tribali, solo punti e linee. Più che tatuaggi i segni di una cura contro l’artrosi.

Otzi non era il suo vero nome, gli è stato dato molto tempo dopo la sua morte da un gruppo di persone che hanno ritrovato il suo corpo. Già, il suo corpo, perché oggi Otzi è un reperto, un reperto archeologico di circa 5200 anni fa. Un raro esemplare di Homo Sapiens mummificato dal ghiaccio. La sua pelle, i suoi vestiti, gli attrezzi che portava con se, perfettamente conservati dal ghiacciaio ed emersi solo di recente per gli effetti della scioglimento dei ghiacci dovuto all’innalzamento della temperatura del pianeta.

In quel periodo gli uomini in Europa erano pochi, eppure avevano la necessità di spostarsi da un posto all’altro, attraversando, senza saperlo, quelli che noi oggi chiamiamo i confini delle nazioni.

A quei tempi non esistevano confini: c’erano valli, fiumi, catene montuose, pianure, laghi, foreste, e l’unico vero limite era il mare. Troppo grande per attraversalo tutto, troppo pericoloso per farlo con quelle piccole barche che riuscivano a costruire cavando un tronco di albero.

Di Otzi nel nostro sangue non è rimasto nulla. Nessuno di noi può dirsi un suo discendente, forse perché non ebbe figli, forse perché morirono quello stesso giorno con lui, forse perché, prima di lui o dopo i lui, la sua famiglia morì per gli stenti della fame, sopraffatta da qualche predatore o assassinata anch’essa in un imboscata. E certo che nessuno, subito dopo la sua morte, si occupò del suo corpo. Ferito, dissanguato, venne abbandonato a se stesso, morì dopo un lenta e fredda agonia, da solo, tra la neve poi trasformatasi in ghiaccio che ha conservato quell’istante della sua morte per millenni, per poi riconsegnarcelo. Il corpo supino le braccia entrambe da un sol lato, venne ritrovato nel 1991 da una coppia di escursionisti. Creduto un montanaro deceduto decenni prima si rivelò essere un uomo appartenuto alla prima età del bronzo. Una scoperta sensazionale per gli antropologi, una straordinaria risorsa di informazioni per gli archeologi, in occasione unica prima per la comunità austriaca e poi per quella italiana che si sono contesi il ritrovamento andando a misurare con esattezza metro per metro, centimetro per centimetro, il confine italo-austriaco.

Un’intero museo dedicato a lui, convegni, mostre, studi e pubblicazioni sulle migliori e più autorevoli riviste scientifiche. Il suo corpo, già il suo corpo, mostrato alla meraviglia dei visitatori, allo stupore dei bambini, alle osservazioni degli studiosi. Nel prossimo settembre una intera sessione di studi e di conferenze lo riporteranno di nuovo alla ribalta mediatica per festeggiare il 25° anniversario del suo ritrovamento.

Oggi è conservato in una speciale stanza refrigeratrice con pareti in vetro, in modo da permetterne la visione ai visitatori del museo. Temperatura ed umidità costante ne garantiranno per sempre la conservazione. Il suo corpo, già il suo corpo, sarà visitato, studiato, esaminato ed analizzato per molti anni a venire, fino a quando di lui non si riuscirà a sapere ogni cosa possa dirci, possa raccontarci. Abbandonato moribondo, la sorte ha voluto che si conservasse intatto per migliaia di anni da morto. Oggi il mondo intero aspetta che quel copro parli, ci dica qualcosa di quel passato. Ma cosa altro volete che ci dica se non di riposare in pace, cosa altro volete che dica se non: “lasciatemi riposare in pace, come ognuno di voi vorrebbe fare”. Cosa volete che ci dicano i suoi occhi cavi, le sue ferite, il naso fratturato, le sue braccia penzolanti su un lato?

Lasciate che per quel corpo termini finalmente quella triste giornata iniziata migliaia di anni fa, lasciate che anche per lui giunga la notte, senza che perseveri in eterno.. Fatelo per Otzi, fatelo almeno per il suo corpo.

Cosmo e Tempo nel mito e nella tradizione.

Scrivere o leggere del rapporto tra cielo, tempo e architettura lascia sempre spazio a molteplici suggestioni. Suggestioni che rimandano a simboli ancestrali, lontani da ciò che è prossimo alle esigenze contingenti della vita umana. Cielo e tempo sono entrambi sostantivi, il primo legato allo spazio fisico, il secondo, la cui definizione è ancora contesa tra filosofia e scienza, è considerato il susseguirsi degli eventi. Nel nostro immaginario essi hanno, però, un comune denominatore: sono entrambi infiniti. Infiniti perché al di là dell’universo c’è il nulla, aldilà del tempo pure. Le civiltà umane, sin dalle proprie origini, avevano ben chiaro questo concetto e l’architettura, o meglio quella che noi oggi definiamo architettura, nel suo configurarsi tra spazio e tempo, ha cercato di cristallizzarli, racchiuderli. 
Tra le prime costruzioni umane troviamo i dolmen, sostituiti dai totem e poi dagli obelischi. Prima dei templi, i santuari, prima delle costruzioni residenziali, abbastanza solide da sopravvivere ai loro costruttori e giungere a noi, prima delle costruzioni da difesa capaci di sopravvivere agli attacchi dell’uomo e del tempo, l’uomo costruì i dolmen: costruzioni ben lontane dal soddisfacimento di bisogni materiali, costruzioni realizzate solo per il soddisfacimento del suo fabbisogno spirituale.
Nell’antico Egitto i faraoni, rinunciando alla costruzione di una dimora reggia, impiegavano i loro sforzi per la realizzazione di una tomba che potesse accoglierli per l’eternità. Questa tomba, per la stragrande maggioranza degli studiosi, rappresentava un elemento del cosmo: una stella, l’insieme delle tombe una costellazione. Gli antichi Maia sono ricordati più per i loro calendari che per le loro dimore, calendari che arrivavano a contare i giorni dell’anno per millenni, fino ai nostri, tanto da farci credere che nel 2012, data in cui terminavano i calendari, sarebbe finito anche il nostro tempo.
Costruire una piramide per gli egizi o una ziqqurat per i sumeri, così come costruire un osservatorio astronomico per i Maia (il Caracol), non fu uno sforzo da poco. Migliaia di uomini, migliaia di pietre, migliaia di giorni, tutto per osservare il cielo, tutto per rappresentarlo, tutto solo per dare una casa ad uno spirito, un Dio, che in un tempo lontano, da un punto del cosmo sarebbe giunto per dimorarvi. Per le antiche civiltà il cielo e il tempo avevano un valore ancestrale prima di ogni altra necessità umana, compresa la sopravvivenza stessa. Per le antiche civiltà umane nel cielo e nel tempo era racchiuso il significato e l’inizio stesso dell’esistenza.
Genesi 1,1-2,4

1,1 In principio Dio creò il cielo e la terra.
2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre
5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque».
7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne.
8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.

Il Dio di Abramo creò il Cosmo, la Terra e il Tempo, nel suo susseguirsi tra notte e giorno, prima di creare ogni essere vivente, prima di creare l’uomo. Il Dio ebraico è precedente al tempo, precedente allo spazio, precedente all’universo. In maniera diversa, per gli Egizi, il dio Amon-Ra era il sole al tramonto, presente all’inizio dei tempi come la stessa terra. Gli antichi greci immaginarono, invece, che all’inizio del tempo esistesse solo il Caos, il Caos generò il Cosmo, dal Cosmo presero vita gli Dei.
Non c’è culto antico che non tenga in stretta correlazione il Tempo e il Cosmo, come non c’è civiltà tardo arcaica che non legasse al cielo lo scandirsi del Tempo e le conseguenti attività sociali, colturali agricole.
Raccogliere in un testo, un culto, una religione tutte le interazioni tra Tempo e Cosmo e l’influenza che queste avrebbero avuto sulla crescita e sviluppo della civiltà, richiedeva una conoscenza multidisciplinare inimmaginabile al tempo, se non in via filosofica. Conoscenza, che nel periodo proto-storico o arcaico si trasformava nella necessità di dare un senso alle cose, al mondo che ci circondava. Il Tempo aveva un inizio, li, si poneva la nascita della materia, anche se sotto forma di Caos. Gli astri, presenti nel firmamento avevano un ruolo spirituale, il loro movimento era invece premonitore. Tutto ciò che proveniva dal cielo era considerato divino come tutto ciò che vi accadeva, come una semplice alba. Amon-Ra il Sole nascente, l’inizio del giorno, era l’incarnazione del Tempo e dell’astro più grande presente nel cielo all’ora visibile. Il Sole era tutto: la luce, la vita. Ramses II eresse il suo tempio, quello di Abu Simber, rivolto al Sole nascente. Il 19 Febbraio ed il 20 Ottobre i raggi solari penetravano nella cella ad illuminare tre della quattro statue presenti sul fondo: Amon-Ra di Tebe (il padre di tutti gli dei e dio del sole), lo stesso Ramses II divinizzato, Ra-Harakhti di Eliopoli (il falco con il disco solare) e Ptah di Menfi (dio delle tenebre, dell’arte e dell’artigianato) l’unica statua a rimanere sempre nell’ombra.  
Cosa rappresentavano per gli egizi le due date? La prima data, il 19 Febbraio, la probabile piena del Nilo che avrebbe concimato i campi con il suo limo; il 20 Ottobre, la data dell’inizio del raccolto. Un’enorme orologio astrale, alto trentatré metri e largo quasi quaranta, sul cui ingresso quattro enormi statue raffiguranti Ramses II, ognuna con indosso il suo copricapo che simboleggiava l’unione dei due regni (Alto e Basso Egitto). In un’unica opera, tra scultura e architettura, erano racchiusi il Tempo, il Cosmo e soprattutto la volontà dell’uomo di controllarli. Ramses non sedeva al fianco degli Dei ma al centro. I suoi figli erano rappresentati da piccole statue poste all’ingresso del tempio, all’ombra delle sue alte più di venti metri. Nella cella interna, invece, lui era grande quanto i suoi padri, era grande quanto gli dei che lo avevano generato. Ramses II non aspirava a governare l’Egitto, aspirava a governare il Cosmo e lo avrebbe fatto fino alla fine dei tempi.
Dopo lo spostamento del tempio, in seguito alla costruzione della diga di Assuan nel 1960, i giorni in cui il sole penetrava nel tempio erano diventati il 22 Febbraio e 22 Ottobre. La crescente esigenza di energia e gli interessi economici ad essa collegati, prevalevano sulla volontà divina.
Per i greci il Sole era il padre delle divinità dell’Olimpo le quali diedero il nome ai pianeti (dal greco planetes: errante, vagante); non considerati essi stessi divini ma semplicemente corpi celesti. La scissione tra il divino e il Cosmo era avvenuta nella notte dei tempi, gli Dei erano sulla terra e ne rappresentavano la sua natura (Nettuno, il Dio del mare, Elio il Dio del vento, etc.). I giganti del pensiero filosofico occidentale avevano ridotto alla coscienza dell’uomo i segreti dell’esistenza. La creazione del mito, non è nulla se non il tentativo di ordinare la realtà in cui vivevano, dare un senso a ciò che accadeva la dove non arrivava la conoscenza. L’architettura religiosa greca era caratterizzata da edifici nel cui interno continuava la tradizione di rappresentare le divinità (Atena, Marte, etc.) con statue enormi. Le sculture rappresentanti gli uomini, invece, erano, a differenza di quelle egizie, in scala reale. Nessun uomo era immortale, neanche se era figlio di un Dio (Achille, Perseo, etc.). Per ogni uomo il Tempo aveva un inizio ed una fine, solo alla gloria delle sue gesta era riservata l’immortalità. Il cielo restava un mistero, inesorabile continuava la ricerca delle sue leggi. Nulla di trascendente, ma leggi che regolassero il Cosmo e il Tempo, inteso come il susseguirsi del giorno e della notte e delle stagioni nell’anno, qualche volta le intuizioni, nate da semplici osservazioni, andavano molto vicino alla realtà. Aristarco di Samo, nel III a.C., teorizzo che la Terra era tonda, ruotava intorno al Sole e che il suo asse fosse inclinato in modo tale da generare le stagioni. Quando gli obiettavano che, secondo la sua teoria, anche le stelle avrebbero, come i pianeti, dovuto ruotare intorno al Sole, semplicemente rispose che queste erano molto più lontane e molto più grandi ed é per questo sembravano immobili. Passarono molti secoli e molte scomuniche prima che questa teoria fosse resa evidente dalla scienza.
Mito, religione, filosofia e scienza, nei secoli successivi, hanno continuato a contendersi il primato sulla ricerca dei valori simbolici e astrali.
Nell’architettura romana il tentativo di racchiudere la volta celeste si rendeva palese nelle costruzioni di opere come il Pantheon, il tempio di tutti gli Idei, ripreso successivamente dalla tradizione cristiana con la costruzione delle cupole. Nel nord Europa, le cattedrali gotiche, viste dall’esterno, aspiravano al cielo, osservate dall’interno lo contenevano.
Poco prima, quando nei secoli bui della cultura accidentale, il misticismo e la religione, prevalsero sulla filosofia e la scienza, un gruppo di uomini nel tentativo di isolarsi da una civiltà corrotta e violenta creò una nuova ”regola”. I monaci benedettini scandivano le ore del giorno, le settimane e le stagioni dell’anno con il misticismo e la preghiera regolando anche le attività legate al necessario fabbisogno umano. In grande umiltà, l’uomo aveva cercato di imprigionare di nuovo il Tempo e il Cosmo in un solo edifico, questa volta un monastero. Ma prima che nell’architettura, il Cosmo e il Tempo arano già stati racchiusi nel medesimo progetto divino: la redenzione. La vita nella comunità monacale aveva quale fine proprio quello della redenzione, che sarebbe avvenuta nell’aldilà alla fine dei tempi, un aldilà che coincideva con il Cosmo così come era stato scritto nelle Sacre Scritture. Nel credo Cristiano, il figlio di Dio “é salito al cielo”, e come Ramsete II, “siede alla destra del Padre” […] “e il suo Regno non avrà fine”. Tempo e Cosmo, risultavano ancora presenti come in tutti i primi culti monoteisti ed in quelli pagani.
Nel medioevo, anche le menti più illuminate, riconducevano la creazione del Cosmo, alla volontà divina, escludendola dalla discussione filosofica e teologica in quanto appartenente alla fede. Oggetti del creato, Tempo e Cosmo non erano eterni e come tutta l’opera divina, potevano essere indagati, solo la loro origine era lasciata alla fede. Tommaso D’Aquino ci ha privato della sua interpretazione logica sulla natura dell’universo, S. Agostino ci aveva, invece, lasciato incantati da una delle migliori definizioni di Tempo:

« Che cos’è dunque il tempo? Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so. Tuttavia affermo con sicurezza di sapere che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato; se nulla si approssimasse non vi sarebbe un tempo futuro se non vi fosse nulla, non vi sarebbe il tempo presente. Ma di quei due tempi, passato e futuro, che senso ha dire che esistono, se il passato non è più e il futuro non è ancora? E in quanto al presente, se fosse sempre presente e non si trasformasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità… Questo però è chiaro ed evidente: tre sono i tempi, il passato, il presente, il futuro; ma forse si potrebbe propriamente dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell’animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l’attesa… Il tempo non mi pare dunque altro che una estensione (distensio), e sarebbe strano che non fosse estensione dell’animo stesso. »

Dare un ordine alle cose trascendenti, così come dare un ordine alle esigenze immanenti è stato, per secoli, una costante della cultura post neolitica. In effetti, fino a quando non si iniziò a diffondere il culto dei morti, a cui veniva garantita una nuova vita in un mondo parallelo, non esisteva luogo sulla terra che fosse sacro o che venisse considerato tale. La terra divento sacra quando iniziò a conservare i resti degli antenati. Gli spiriti, nel contempo aleggiavano nel Cosmo. Dolmen, eretti verso il cielo per indicare il “luogo” nella terra in cui erano seppelliti i morti. Il Cosmo era lo spazio in cui sarebbero vissuti in eterno, a prescindere del tipo di sepoltura utilizzata: tumulazione, fossa o cremazione. Ai redenti era riservato, per l’eternità, ciò che nel mondo terreno era solo desiderabile, come l’Ásgarð che nella tradizione vichinga era il luogo dove era stato costruito il Valhalla, la sala dei “morti in guerra”: un enorme costruzione con 550 porte, le mura fatte delle lance dei guerrieri più valorosi e un tetto ricoperto di scudi d’oro, oppure, più semplicemente, le immense praterie per i cacciatori indigeni nord americani.
Il Paradiso per i cristiani, il Valhalla, per i vichinghi, ogni culto aveva il suo spazio non fisico, spirituale, spesso coincidente con il cielo e affinché questa nuova vita fosse compiutamente vissuta, doveva essere eterna.
Una volta radicato il mito, il culto o la tradizione, andava costruito un accesso al cielo, per attraversarlo era necessario la purificazione della corpo. La cremazione nei casi estremi, la mummificazione o tumulazione, più frequentemente utilizzata nelle tradizioni arcaiche. L”accesso all’aldilà richiedeva riti e cerimonie ad opera di sacerdoti specializzati. Il rango sociale del defunto era rappresentato dalla quantità e qualità degli oggetti che avrebbero portato con se nel viaggio ultraterreno, passando da semplici oggetti (oli, elmi, spade) ad interi tesori, come quello di Tutankamon.
Nelle necropoli etrusche o in quelle presenti nelle isole egee, vere e proprie città, le tombe erano spesso a pianta circolare (come gli astri) a forma di tumulo. Vi si accedeva percorrendo un corridoio in fondo al quale una porta conduceva ai locali interni. L’ipogeo, dipinto su tutte le pareti da scene di vita o da simboli rappresentanti iniziazioni al culto, era destinato ai soli defunti che venivano posti su veri e propri letti destinati ad un riposo eterno, senza tempo, come eterno sarebbe stato il loro sorriso scolpito sui sarcofagi, come quello ritrovato nella necropoli etrusca di Cerveteri.
Nella tradizione cristiana avvenne ciò che in molte culture religiose era solo teorizzato: dopo la morte e la sepoltura, seguita dal rito della purificazione del corpo, il Cristo risorse e ascese al cielo per il godimento di una vita eterna. La certezza di tale evento per i credenti è rappresentato dall’assenza del corpo del Cristo nella sua tomba. Una assenza che giustificava sia la resurrezione che l’ascesa. La particolarità sta nel fatto che il culto inizia con il compiersi dell’evento, e non nella promessa che ciò avvenga. L’architettura cristiana, alle sue origini, porta con se un elemento di novità, oltre alle in varianti simboliche comuni ad altri culti. Prima nelle catacombe, poi nelle prime basiliche paleocristiane, il racconto dell’evento, necessitava di un nuovo spazio destinato ai credenti. Il sacerdote officiava rivolto all’altare ripercorrendo tutte le tappe di ciò che era accaduto, alle sue spalle l’assemblea dei fedeli occupava la navata centrale raccolto in preghiera. A differenza degli altari pagani sui quali avvenivano sacrifici animali per placare le ire del Dio o semplicemente come funzione propiziatoria, nel culto cristiano, l'”evento” aveva cristallizzato il Tempo, ed andava ripetuto in eterno.
Comprendere il significato e i valori simbolici che rappresentavano il Cosmo e il Tempo (entrambi infiniti) nella tradizione religiosa presenti in tutte le culture arcaiche e perpetratasi fino ai giorni nostri è comprendere le invariati delle costruzioni destinate al culto o comunque sacre.
Concludendo, é interessante sottolineare, lontani da giudizi teologici, che le invariati restavano tali anche nella rappresentazione del potere politico che nei secoli successivi sostituì quello religioso, nei simboli e nell’uso delle sue rappresentazioni architettoniche. Alla pari delle cattedrali venivano costruite regge e palazzi pubblici. Questi raccolsero tutte le invarianti simboliche, architettoniche e spaziali degli edifici religiosi, compreso l’uso simbolico del controllo del Cosmo e del Tempo. Come, quando è perché avvenne può essere sintetizzato nell’utilizzo del “globo crucigero”, la rappresentazione del dominio di Cristo sull’universo, Questo globo, nell’iconografia medievale, ripresa fino ai giorni nostri, è contenuto nella mano dell’imperatore e ne rappresentava il potere terreno. Eternità e infinito erano il luogo dello spirito, racchiuderli e dominarli, la necessità del mito, della tradizione e del potere.

Li chiamano freelance

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Li chiamano freelance, sono giornalisti, grafici, informatici, ma per il mondo economico sono carne da macello, agrumi da spremere e poi gettare. Sono giovani bravi nel loro lavoro che danno il massimo in ciò che fanno ma che ricevono il minimo. Li chiamano e si fanno chiamare freelance che in italiano si traduce in precari. Si, in italiano perché nel resto del mondo Freelance si traduce in “lancia libera”, guerriero indipendente, mercenario. Sono usati dai giornali per fare il lavoro sporco quello che i professionisti si rifiutano di fare: le inchieste scomode, le interviste vere, dove la domanda e la risposta non sono concordate.

Sono i grafici che se realizzano il logo della Coca-Cola vengono pagati cento dollari; sono l’interprete come Clare Torry della canzone di The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd che, con un compenso di appena trenta sterline, ha cantato la canzone che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Sono geni, scrittori, musicisti, artisti: quello che di meglio questo mondo può offrire al mercato economico, quello che di meglio il mercato usa e poi getta.

Sono bravi? Si! Sono liberi? Forse! Sono sfruttati? Certamente! E fra poco, almeno nel giornalismo, lo saranno per legge. Quanto può guadagnare un giornalista? Se sei Bruno Vespa, fino ad un milione e duecento mila euro l’anno, se sei un freelance fino a seimila ero lordi. Venti euro a “pezzo”, trenta righe, meno della dattilografa che li batte a macchina, meno del tipografo che li stampa, meno del giornalaio che li vende, meno dell’operaio che li legge, meno dello spazzino che li raccoglie. Li leggiamo sui giornali, nel blog, nei social network. Ci tengono informati su ciò che ci accade intorno che è spesso quello che i Bruno Vespa ci nascondono.

Sono giovani, smaliziati, qualche volta idealisti: credono che il mondo si possa cambiare, nei loro occhi leggi l’entusiasmo di chi sa che può farcela, di chi sa che le cose possono cambiare, di chi non sa che non è così. Sono dinamici e per questo i migliori, si lanciano nel vuoto, al buio o almeno ti fanno credere che sono disposti a farlo.

Il mercato, l’uomo nero, lo sa. Si ciba di questo, si ciba del loro entusiasmo perché vuole apparire ciò che non è: buono. Gli hanno fatto credere che è sempre stato così: bisogna fare la gavetta. Bisogna sacrificarsi, tutti i più grandi giornalisti hanno fatto gli inviati o i corrispondenti: Montanelli, Biagi, perfino Vespa e la Grubel. Un “lancio di Agenzia” viene pagato poco più di 3 euro, anche se la notizia è che oggi è la fine del mondo. Il pericolo è che conviene tacere, come ci ha insegnato Corona, come tragicamente non aveva capito Ilaria Alpi.

Oggi la comunicazione è tutto, regola la nostra vita, i nostri soldi, il nostro benessere. Se non si vuole far mangiare carne per i prossimi tre mesi basta diffondere la notizia che c’è stato un caso di “mucca pazza” in un allevamento toscano, un caso di aviaria in uno stabilimento di polli e così via.

Qui prodest? Come fai a tenere in un campo di concentramento 15 mila o 20 mila prigionieri, con appena 100 al massimo 200 soldati? Gli dai un pezzo di pane al giorno, tutti i giorni, a tutti. Ne dai due a chi ti controlla la camerata, tre a chi ti distribuisce il pane, quattro a chi ti apre le docce, cinque a chi ti raccoglie i cadaveri, sei a chi te li seppellisce. Sempre che sappiano lavorare, sempre che siano fedeli, sempre che facciano ciò che gli ordini di fare, anche di morire. I cento soldati ti serviranno allora solo per contarli, solo per intimidirli. E’ il pane, il tozzo di pane che li rende schiavi come i venti euro che prevede li nuovo contratto del Sindacato Unico dei giornalisti che in questi giorni si sta apprestando a firmare.

Cosa c’entro io con questa storia? niente ma non posso pensare che in un mondo libero se queste poche righe fossero pubblicate in prima pagina sul maggior quotidiano nazionale non varrebbero l’inchiostro necessario a stamparne una copia.

Abbiamo scelto di cibarci dall’albero della conoscenza e per questo siamo stati cacciati dal Paradiso Terrestre. Lo abbiamo fatto spinti da una donna, Eva la prima donna, ma vi assicuro ne è valsa la pena.

Dall’agorà al social network

Pestum

Bruno Zevi scriveva, ormai nel lontano 1948, in Saper vedere l’architettura: “Che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi o da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la scena dove la nostra vita si svolge.”[1]

I testi di Zevi sono stati il fondamento della cultura architettonica di almeno tre generazioni di architetti italiani. Che l’architettura sia lo spazio dove si inverano le relazioni umane è diventato l’assioma euclideo di tutte le correnti culturali che dal dopoguerra ad oggi si sono formate ed hanno accompagnato il cammino degli architetti e la lettura della critica architettonica.

La “verità evidente” euclidea[2], non lontana dalle citazioni delpostmoderno, trasferì in quegli anni dalla materia allo spazio il valore architettonico: spazio fisico carico di valori formali, simbolici, storici. Dagli anni cinquanta e per tutto il XX Sec., su binari differenti, la cultura architettonica percorse il suo viaggio nel tempo. La critica, ugualmente, rileggeva e soprattutto riscriveva il percorso dell’uomo nella storia. Il focolare domestico per la casa, l’agorà per la città erano il centro dello spazio cosmico attorno al quale nascevano, si radicavano le strutture culturali e sociali della civiltà.

Nella città eterna, Roma, tra la meta del I sec. a.C. e il I sec. d.C., nell’arco di appena 150 anni vennero costruiti quattro fori imperiali, tutti nello stesso luogo. Il foro cambiò forma, orientamento ma conservò tutti i valori simbolici e funzionali originari. L’agorà per i greci, il foro per i romani, la piazza del mercato dal medioevo in poi, a scala urbana, rappresentarono il luogo, lo spazio dove si costruirono le relazioni umane, dove si scambiavano le merci, le idee, dove si caratterizzava l’identità culturale di una civiltà. Lo spazio fisico fu e restò il protagonista dell’architettura.

La domanda che ci poniamo è se anche oggi è così, o meglio, se anche oggi è solo così come Zevi ci ha insegnato. Come sempre accade, la pittura, l’avanguardia delle arti figurative del novecento, fu la prima a leggere einterpretare i cambiamenti della società, svincolata, a differenza dell’architettura, dalla necessità di soddisfare esigenze plurime ma materiali. Tra gli anni ’30 e ’60 la forma riconoscibile della realtà si astrasse fino a scomparire dalla tela (Piet Mondrian, Kazimir Malevich). Negli anni ’50 e ‘60 la materia diventò protagonista, caricata del significato simbolico del gesto (Alberto Burri, Jackson Pollock). All’irrompere dei media nella vita quotidiana, la Pop Art ne rappresentò limiti e opportunità (Roy Lichtenstein, Andy Warhol). L’architettura, nel contempo e in tutto il suo evolversi nella storia, si era caratterizzata nello spazio; spazio mutevole, come mutevoli furono i comportamenti umani. Uno spazio fisico, immanente, ricco di significati, di molteplici letture, di infinite varianti. Nella pittura, però, avvenne ciò che nell’architettura era in qual periodo tecnicamente impossibile: la forma, il colore e finanche la materia scomparvero, restò solo la tela. Lucio Fontana attraversò la tela e con un gesto creò, nei primi anni ’60, il suo primo “Concetto spaziale”. Gli architetti non lo seguirono, almeno per il momento. Negli anni ’70, Christo e Jeanne-Claude prevaricarono i confini: lo spazio architettonico era statico, almeno nel suo complesso, e venne impacchettato con corde e teli di plastica. Sottratti alla vista, i monumenti, i palazzi, le chiese e i ponti abdicarono all’arte. La ricerca architettonica tra gli anni ’60 e ’70 era distratta dal soddisfacimento di bisogni contingenti sopraggiunti: la città, la casa, i luoghi dove si inveravano le relazioni umane andavano reinventati, adeguati, adattati, ristrutturati e, come era iniziato ad accadere nelle grandi e piccole città europee, salvaguardati e tutelati.

Era giunto il momento di muoversi. questa volta sul serio. Piano e Rogers, immaginarono, almeno nel primo progetto, che il loro edificio, il Centro Pompidou di Parigi, si potesse muovere: l’altezza dei piani sarebbe potuta variare al variare delle necessità. La tecnologia adesso lo permetteva, il budget no.

L’arte continuò, inesorabile, la sua corsa in avanti: scomparve lo spazio, l’arte diventò “Concettuale”. Lo spazio restò momentaneamente il luogo dove si compivano i gesti (“Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua” di Gino De Dominicis), il luogo dove artisti come Joseph Beuys posero l’umanità di fronte ai propri orrori. Senza rendersene conto, gli artisti, entrando nel tubo catodico, si trasferirono in un nuovo spazio. I media si trasformarono da mezzo di conoscenza a fine della coscienza collettiva. Beuys riprese le sue performance, Studio Azzurro, collettivo di video-artisti, ne amplificò fino all’eccesso le potenzialità. Lo spazio architettonico era ormai, seppure in ritardo, in moto. L’architettura diventò de-costruita, fluida, dinamica, non è un caso che una delle personalità emergenti degli anni ’90 che si pose tra le archistar indiscusse del XXI secolo fu Zaha Hadid. Non è un caso perché, anche se naturalizzata britannica, il suo retroterra culturale era lontano dalla storia, lontano dal peso della tradizione. Laureata, prima in matematica, la scienza astratta per eccellenza, approdò all’architettura solo dopo la collaborazione con Rem Koolhaas e Elia Zenghelis (OMA): i maestri non si seguono, si superano.

L’architettura è ormai fluida, oseremmo dire liquida e persino gassosa, come nella “Nuvola” di Massimiliano Fuksas. Siamo arrivati al limite dello spazio fisico. Dopo oltre mezzo secolo dal taglio della tela di Lucio Fontana, che segnò il salto della pittura dalla materia allo spazio, siamo arrivati all’architettura che ha modificato la natura del suo spazio fisico. Abbiamo, però, perso di vista in questo viaggio “la scena dove la nostra vita si svolge”. La scena, appunto. Zevi, infatti, nel suo scritto rimandava ad una scena, un ambiente. Rileggendo, ci piace immaginare che nella sua definizione egli abbia, in nuce, previsto ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte: nelle relazioni umane lo spazio, nella sua accezione fisica, è scomparso! In un futuro non remoto gli architetti si troveranno a misurarsi con i nuovi luoghi dell’architettura, scene che, per l’appunto, oltrepassano i confini dello spazio fisico diventando immateriali.

Torniamo per un attimo indietro di qualche millennio. I più antichi manufatti dell’umanità sono costituiti da pietre di selce lavorate in modo da essere rese taglienti, avevano lo scopo di poter aumentare nell’ominide la sua capacità offensiva e difensiva. Tra i primati, gli antenati dell’uomo erano quelli capaci più degli altri di difendersi, di uccidere. Riconosciuta la sua straordinaria capacità di realizzare oggetti, l’uomo iniziò a produrre utensili finalizzati al soddi-sfacimento di bisogni diversi, quali la conservazione dei cibi, il trasporto dell’acqua, la decorazione per il proprio corpo, finanche la realizzazione di oggetti rappresentanti valori assoluti la cui finalità assumeva caratteri sacri ed ancestrali. Anche se creati dall’uomo questi oggetti assumevano, nelle loro fattezze, la sacralità degli idei. La manualità aveva dato vita alla coscienza della società umana.

Durante la seconda guerra mondiale, le necessità belliche avevano spinto gli scienziati tedeschi a immaginare una bomba che potesse raggiungere, lanciata dalle coste continentali, le città inglesi senza che fosse necessario trasportarla per via aerea. La contraerea britannica aveva sviluppato, infatti, un sistema di difesa capace di prevenire e reagire ai raid aerei: si era dotata dei radar. Una bomba di diverse tonnellate di esplosivo dotata di autonomo sistema di lancio e volo prendeva il nome di V2: il primo missile. Era nata l’era della propulsione a reazione. Oggi questa invenzione, nata per uccidere, ci consente di viaggiare in aereo tra un continente e l’altro consentendoci di portare nello spazio i satelliti meteorologici e quelli delle comunicazioni sino ad far atterrare le prime sonde su Marte.

Durante la guerra fredda, negli anni ’60, la difesa americana iniziò a sviluppare una tecnologia capace di mantenere intatti i collegamenti tra le basi militari che eventualmente fossero sopravvissute ad una catastrofe nucleare. Alla fine degli anni ottanta questo sistema, scongiurato il pericolo, venne ceduto all’industria civile: la difesa militare americana, senza probabilmente rendersene conto, aveva donato all’umanità la più grande invenzione destinata a trasformare la vita di tutti i giorni. Questa tecnologia prese il nome di Internet.

Come spesso è capitato nella storia dell’uomo, lo sviluppo di tecnologie nate per soddisfare il più primitivo bisogno di offesa e difesa dell’uomo contro l’uomo è finito per diventare esso stesso strumento di relazione tra individui, società e civiltà diverse.

“Every tool is a weapon if you hold it right” (Ogni strumento è un’arma se si tiene bene) scrive Ani Di Franco. Ogni oggetto creato dall’uomo, una volta prelevato dall’artista è posto così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria potrebbe persino mutarsi in un’opera d’arte, ci insegna con la sua “fontana” Duchamp. Le cose sono così come sono spetta a noi riportarle all’arte, secoli prima affermava Federico II.

A cosa ci rimanda tutto ciò? I Social network sono in pochi anni diventati lo strumento che in assoluto produce e mantiene le relazioni sociali tra le nuove generazioni, nuove agorà di scambio di informazioni e idee. Le merci, per evidenti ragioni sono, almeno per adesso, tenute fuori ma se consideriamo il valore del prodotto economico dei servizi rispetto alle merci e il peso economico che queste hanno nella nostra economia, ci rendiamo conto dell’equivalenza tra il vecchio e nuovo foro della società contemporanea.

Similitudini di linguaggio e concettuali si sono già consolidate nella costruzione di questo nuovo spazio: portali di accesso, autostrade telematiche, finestre di dialogo, rimandano a spazi o elementi fisici colle-gando in maniera segni e cose tra loro altrimenti non relazionabili. In questo nuovo spazio ci si muove, seppur lessicalmente, come in uno spazio fisico, si naviga in rete, si aprono finestre, si chiudono appli-cazioni. Nella nuova dimensione ci si può anche perdere, come in “Lost in Google[3]. L’avanguardia non è più arte ma tecnologia, anche questa immateriale. Migliaia di designer vengono impegnati nel mondo per progettare e realizzare dispositivi, tablet e smartphone, necessari per trasmigrare in questo nuovo spazio. La manualità, la tecnica e l’ingegno sono completamente dedicate ai nuovi strumenti di connessione alla rete, così come i bilioni di dollari investiti. La connettività tra il materiale e l’immateriale travalica i suoi confini, come fece un tempo l’arte con l’architettura. La casa è domotica, connessa con i suoi abitanti, dialoga continuamente con loro: accende il camino prima che i suoi abitanti rientrino, partecipa alle attività domestiche e chiede aiuto in caso di infrazione.

Come ogni nuovo continente, il nuovo non-luogo viene colonizzato da culture e civiltà diverse e diversificate che ne caratterizzeranno e comprometteranno nel tempo il suo sviluppo. Non è, infatti, un caso che gli Stati Uniti erano una colonia britannica, il Canada, francese, il Messico e buona parte del Sud America, spagnola, e la restante portoghese. Un imprinting culturale oltre che linguistico che si è conservato nei secoli.

La sfida adesso è lanciata: quale sarà l’imprinting che la cultura architettonica contemporanea riuscirà, prima che sia troppo tardi, a dare a questo nuovo spazio dove si relazionano e relazioneranno sempre più le persone?Facciamo un altro piccolo passo indietro. Bill Gates, fondatore di Microsoft, negli anni novanta pubblica un saggio scritto a quattro mani dal titolo “La strada che porta al domani”[4]. Letto a quell’epoca il testo poteva essere considerato, come tanti altri pubblicati da manager di successo, un’autobiografia celebrativa di un giovane ragazzo diventato miliardario per aver investito tutto il suo tempo e i suoi pochi soldi in un azienda che scalerà le vette di Wall Street. Dal testo estrapoliamo due concetti che apparivano allora secondari. Il primo l’ammissione di colpa per aver, nella sua prima fase di sviluppo dei suoi software, sottovalutato l’apporto del web e di internet[5]; il secondo, la visione che il futuro sarà costituito da un capitalismo “senza attrito”, fondato ed alimentato dalla connettività tra le persone. Il testo si chiudeva con l’affermazione che la diminuzione del lavoro prodotta dalla diminuzione dell’attrito del capitale avrebbe aumentato il tempo libero che sarebbe stato impegnato nel soddisfacimento di bisogni intellettuali favoriti dalla connettività. La bolla economica statunitense ha infatti creato milioni di disoccupati che impegnano il proprio tempo postando e messaggiando connessi ai Social network. I due aspetti, apparentemente slegati dalla critica architettonica devono essere, al contrario,considerati alla stregua dei primi dolmen della storia dell’architettura. Attendiamo, inermi, le nuove evoluzioni delle tecnologiche. Una volta, queste venivano considerate scoperte, come il Nuovi Mondi di Colombo, Vespucci o Magellano: si scopriva il fuoco, la gravità, le radiazioni, la penicillina. Oggi la tecnologia crea nuova tecnologia, rendendo immediatamente obsoleta quella esistente. L’alienazione prodotta dalle nuove forme di comunicazione e relazione è dietro l’angolo, ma altresì le possibilità di socializzazione che esse offrono sono infinite. Questo nuovo spazio è vissuto quasi più dello spazio fisico, le nuove generazioni hanno più ricordi della loro vita postati nei server dei Social Network che nei cassetti delle loro scrivanie. Anche le rivoluzioni che per definizione nascono nelle piazze, hanno trovato nella rete il luogo dove si sono iniziati ad aggregare le istanze delle masse. Gli storici inizieranno a scrivere non più di rivoluzioni come quella di piazza mercato a Napoli del 1647 o di Piazza Tienanmen a Pechino del 1989, ma scriveranno della Primavera araba del 2011 nella nuova agorà di nome Twitter o Facebook.

Questi spazi immateriali posso essere anche invasi. “I barbari. Saggio sulla mutazione”[6] di Alessandro Baricco ci rappresenta una società in mutazione, dove i barbari non sono popolazioni primitive di nomadi che premono sulle mura dell’impero ma una giovane generazione con elevate conoscenze tecnologiche prive di riferimenti culturali, una generazione che non ha bisogno di sapere nulla perché tutte le informazioni sono facilmente recuperabili sui motori di ricerca come Google; non ha bisogno di visitare o conoscere nessuna città, perché possono farlo utilizzando Street View comodamente dal PC; una generazione che condanna o assolve ciò che accade nella “piazza immateriale”, così come nelle arene dell’antica Roma, con il “pollex versus” che assume oggi la più semplice connotazione di “Mi piace”[7]. Questo spazio immateriale è per tutto quanto detto “la scena dove la nostra vita si svolge”, come scriveva Zevi. Questo nuovo spazio sarà l’architettura del prossimo futuro.

Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, i primi maniscalchi del nuovo spazio, hanno definito quale potesse essere questa nuova scena, correndo il rischio di trasformarsi nei faraoni delle nuove piramidi segnando per sempre il cammino di questa odierna civiltà e lasciando a noi il solo compito di trascinare delle grandi pietre.

Note:

[1] B. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, 1948.

[2] In filosofia, contrariamente alla matematica, gli assiomi assumono il significato di verità evidenti tali che non necessitino di essere dimostrate; in matematica l’assioma è la condizione per la quale la dimostrazione del teorema è valida se è vero il postulato anche se non dimostrato.

[3]”Lost in Google” è una web-serie di successo pubblicata da The Jackal sul canale web di You Tube, ottenendo, oltre che diversi premi dalla critica cinematografica, centinaia di migliaia di visualizzazioni.

[4] B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1995.

[5] Nei primi anni novanta la piattaforma di navigazione nel Web era un software di nome Netscape, il colosso Microsoft dal ’95 iniziò una vera e propria lotta, violando le leggi antitrust, al fine di indebolire la presenza sul mercato di Netscape per sostituirlo con Internet Explorer, parte integrante del sul suo sistema operativo.

[6] A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2008.

[7] Il gradimento di un post è rappresentato dagli utenti dei Social Network dall’aggiunta di un “mi piace” che viene attivato da un icona a forma di pollice verso.

Interpretazione e sovrainterpretazione dell’architettura (rivisto e corretto)

Nel libro di Umberto Eco “I limiti dell’interpretazione”, pubblicato nel 1990, sono messe in luce le diverse relazioni tra il significato letterale del testo e le sue possibili interpretazioni. Il libro di Eco è un saggio di semiotica ed ermeneutica e la sua lettura è poco diffusa tra gli architetti, a mio avviso colpevolmente, dal momento che la scrittura possiede una stretta attinenza con l’architettura e l’analisi sui suoi dispositivi, logici e di senso, non può essere ignorata da chi si occupa di forma, struttura e morfologia dell’architettura.

Temi e linguaggi sono legati da una stretta relazione e, soprattutto, si sono influenzati nel loro procedere, nel loro crescere e trasformarsi nella storia. Ogni periodo storico manifesta analoghe strutture “costruttive” nei diversi linguaggi in tutte le varie componenti culturali, in tutte le arti che lo contraddistinguono, in tutto ciò che in sostanza lo caratterizza e lo rende univocamente riconoscibile e, se ciò vale per ogni epoca, vale probabilmente anche per la nostra con i suoi movimenti artistici e culturali. 

Per Umberto Eco i limiti dell’interpretazione sono riassumibili in ciò che “non può essere” o non può costituire il significato di un testo, tra le diverse letture possibili e quella meramente letterale. In tal senso, nella lettura dell’architettura, i “limiti” interpretativi si manifestano nel non poter dire ciò che lo spazio costruito non può essere o divenire, fatto salvo ciò che è o potrebbe essere. Un qualsiasi edificio, progettato per una destinazione, potrà essere interpretato, seguendo Eco, in ogni modo, escluso in quello che contraddice la sua forma, la sua funzione e la sua coerenza interna. Un edificio residenziale non potrà mai essere un campo di calcio ma, di contro, una chiesa potrà assumere la funzione di una palestra, di un centro conferenze o una sala per concerti e, sebbene siano molti gli esempi nel riutilizzo temporaneo o permanente di architetture sia storiche che contemporanee, pure accade spesso che edifici reinterpretati nell’uso e nella forma non rispondano bene, sia funzionalmente che esteticamente, alle nuove definizioni. Ciò vale anche per edifici del tutto nuovi quali quelli di certa architettura contemporanea, di cui può dirsi che, perdendo la riconoscibilità dell’uso e del linguaggio, totalmente liberi, tanto da disorientare il fruitore, non sembrano offrire limiti all’interpretazione e non avere quindi essi stessi alcun limite, sino a sconfinare nell’insensato.

In un’altra raccolta di saggi-colloqui dal titolo “Interpretazione e sovrainterpretazione”, ancora Eco, in polemica con Rorty, per il quale un testo si espone senza limiti ad ogni possibile interpretazione, affronta la relazione tra autore e lettore ovvero la controllabilità delle interpretazioni dei testi letterari indirizzate dall’autore le quali, anche se sembrano sconfinare oltre il senso posto da chi ha scritto, conoscono comunque un limite derivato sia dalla organizzazione culturale esterna al testo che tuttavia lo ha determinato, sia dalla sua coerenza interna che lo rivolge a sensi definiti e non infiniti come vorrebbe Rorty: se le interpretazioni di un testo fossero variabili ed eterogenee e il limite solo ciò che contraddice il testo letterale, allora ogni interpretazione sarebbe legittima ed avrebbe uguale dignità sino a pervenire a sensi contraddittorii e, in definitiva, al “non senso”. Nel caso dell’architettura, in maniera analoga, potrebbe diventare legittimo trasformare una chiesa in una sala Bingo, una palestra in una biblioteca, una fabbrica in un supermercato e così via, sebbene, così come per la scrittura, almeno secondo Eco, non sia possibile renderla tanto elastica da possedere qualsivoglia significato e funzione. Chi si oppone all’assoluta perdita di limiti all’interpretazione che induce l’assenza di sensi definiti, per Eco, è l’Autore Modello, più che l’autore empirico quello che in una certa maniera lo surdetermina in base alle diverse convenzioni della lingua e che introduce nel testo modi per accompagnare il lettore a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quelle che appartengono alla sua sfera culturale. Nell’architettura, quindi, potrebbe dirsi che  l’interpretazione possibile di un testo edilizio o di uno spazio ne può riconoscere la buona fattura se incontra un “limite” che ne esclude il “non senso” (anche quello della infinita interpretazione) e che ci offre altresì la possibilità di discernere l’arte, comunque aperta ai sensi, dal “Kitsch” o peggio dalla banalità. Appare fuori di ogni dubbio, ad esempio, che un opera pittorica di Malevich, per astratta che sia (“Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918), per suprematista che sia è e sempre sarà, oltre che un’opera d’arte, un quadro. Lo stesso dicasi per il Guggenheim di F. LL. Wright o per ville Savoye di Le Corbusier, il primo un museo e la seconda una casa, per citare esempi famosi, e comunque costruzioni con riconoscibili caratteri. Non solo, ma che sia una caverna, una capanna, un igloo o la villa sulla cascata, non sarà per noi difficile distinguere in tutte il senso della casa. Lontani dall’eccessiva possibilità interpretativa che condurrebbe al “non senso”, cioè, sino al moderno i manufatti rientrano appieno, per volontà dei costruttori, dei proprietari o degli architetti che li hanno costruiti, nel significato semantico di un edificio; usi, costumi o periodi culturali che li hanno generati non ne hanno, nel tempo o nello spazio, modificato il “senso”, la riconoscibilità che pur offrendosi all’interpretazione non ne perde la struttura.

Nella nostra realtà attuale, nell’ampliamento delle conoscenze e delle capacità tecnologiche, la ricerca costante del superamento dei “limiti” spinge sempre più la lettura del “senso” della costruzione verso picchi interpretativi inimmaginabili, sia nella rappresentazione, con l’introduzione delle restituzioni digitali che superano i vecchi modi della proiettiva e della stessa prospettiva, che nella realizzazione, attraverso l’utilizzo di materiali e tecniche innovative.

Naturalmente, se ci si attenesse, in ogni campo, alle interpretazioni più consuete, non vi sarebbe avanzamento della conoscenza e solo l’allontanamento dai limiti interpretativi produrrebbe il nuovo sebbene questo sarebbe condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita culturale di una civiltà. 

La Grecia del IV secolo a. C. era sicuramente all’avanguardia nella ricerca del superamento dei propri limiti culturali e filosofici ma ciò non bastava a superare i limiti tecnologici di una civiltà proto-rurale.  

Il dio egizio Amon Rha era rappresentato nel XX sec. a. C. come un uomo dalla testa aquilina sormontata da un cerchio, venerato da una civiltà che non conosceva l’uso della ruota ma riusciva a costruire le più grandi opere architettoniche che l’umanità abbia mai realizzato sino al XVIII sec. d. C., mostrando così di non riconoscere nel cerchio il significato semantico della ruota pur dandone un valore ancestrale.

Il limite all’interno del quale si configura il significato semantico dell’opera o dello spazio, se da un lato rassicura il lettore o nel caso dell’architettura, il fruitore, dall’altro ne riduce lo stimolo alla sua naturale crescita spirituale ed aspirazione intellettuale.

Ritornando alla lettura del testo di Eco, viene mostrato come, mentre nel leggere un articolo di cronaca, ci accorgiamo che questo vale per il solo significato letterale, un brano di un romanzo di Jules Verne, di contro, si pone obbiettivi diversi. Nel primo caso l’autore descrive un evento realmente accaduto, caratterizzandolo aggiungendo o sottraendo particolari descrittivi limitatamente alla sua capacità narrativa o correttezza professionale. Nel secondo, se si utilizza ad esempio il romanzo “Ventimila leghe sotto i mari”, l’autore descrive un mondo che egli stesso non ha mai visto e che si materializza nella mente del lettore in maniera diversa secondo il proprio vissuto e il proprio retroterra culturale. In altri termini, il primo autore cercherà in tutti i modi, attraverso il testo, di limitare o concentrare la nostra attenzione su ciò che egli ha visto o, peggio, su ciò che egli vuole farci credere di aver visto. Il secondo cercherà di “stimolare” la nostra fantasia aprendo e rincorrendo quei limiti che solo l’immaginazione può superare.

Nell’architettura, di fronte e dentro i suoi testi, gli edifici che decodifichiamo non solo negli usi spaziali, il dispositivo interpretativo pure si determina tra il mero significato letterale, se si vuole funzionale, ed i sensi che si affacciano alla nostra immaginazione.   

Pensiamo, a titolo di esempio, pur consapevoli della opinabilità della scelta, a un tempio greco del IV o III sec. a. C. Per magnifico che sia, esso é per noi rassicurante, nulla del suo spazio sarà motivo di turbamento. Sappiamo che, anche se il tempo le ha ormai cancellate, le sue parti mancanti erano nel posto in cui noi ci aspettiamo siano state e soprattutto nella forma di cui noi sappiamo essere state. Nulla ci impedisce di affermare che al centro della cella vi sia stata una statua delle fattezze della divinità a cui il tempio era dedicato, così come nulla ci potrà mai dissuadere dal fatto che, anche se ormai persa, tra due triglifi era inserita una metopa decorata e al disopra della trabeazione, sul prospetto principale, sicuramente si ergeva un frontone. Apparentemente esso non lascia nulla all’immaginazione che tenta di ricostruirlo e ricostruire i sensi che possedeva, ed anzi, insegnando in passato alle popolazioni greche, e nel corso della storia al mondo intero e alle generazioni successive cosa sia la perfezione, il bello, esso sembra imporre limiti alla nostra interpretazione, lasciando agire quello che Eco chiama “Autore modello”.

Trasferendoci qualche migliaio di chilometri verso est, dalla Grecia antica a Giza, riconosciamo tre edifici, simili tra loro ma di differenti grandezze, disposti in modo apparentemente caotico, privi di qualsiasi decorazione o ornamento e, contrariamente ad altri edifici dell’area, privi di qualsiasi iscrizione. Tutti e tre gli edifici rappresentano una figura geometrica elementare: la piramide. Enormi, queste costruzioni, da millenni hanno scatenato le più assurde teorie: su come siano state costruite, sul perché siano state costruite e perfino sul quando siano state costruite. Che le considerassimo semplicemente tombe o gli dessimo i più improbabili significati simbolici o ancestrali, le piramidi di Giza producono uno stato di incertezza che conduce finanche al turbamento, ed anche in questo caso è probabile che questo sia stato il fine che si erano proposti i loro costruttori. Quale è in questo caso il limite all’interno del quale si inserisce il significato dell’opera? In un cero senso potremmo dire che le piramidi non offrano limiti all’interpretazione e che il solo limite interpretativo é nell’ampiezza della nostra immaginazione. Nel tempo le piramidi hanno mantenuto il loro valore semantico, intrinseco alle loro forme e soprattutto alle loro dimensioni. Non ne abbiamo un’immediata coscienza, ne ricerchiamo parti o rapporti simbolici sia nel contesto morfologico del sito ma ci spingiamo anche nello spazio cosmico, sì che, per comprenderne il significato simbolico-formale non ci possiamo dare alcun limite.

Di fronte alle piramidi sembrerebbe che abbia ragione Rorty invece che Eco e, paradossalmente, l’assenza di limiti interpretativi cui si offrono, appare simile a quella di tanta architettura contemporanea che, rompendo ogni codice, sembra non offrirsi ad alcun senso e insieme ad infiniti sensi. E’ indicativo che in “interpretazione e sovrainterpretazione” Jonathan Culler mostri come Eco tenda a banalizzare le sovrainterpretazioni che, invece, sono quelle interpretazioni che aprono i limiti del testo interrogando il suo non-detto. In questo senso, anche il tempio greco del nostro esempio, offerto all’interpretazione di Robert Venturi, o meglio ancora di Frank Gehry, verrebbe totalmente decostruito, alla maniera del proprio cottage a Santa Monica, non offrendoci, certo, più alcuna testimonianza del mondo che rappresentava, ma facendolo sfuggire, proprio in una tale estrema interpretazione, alla banalizzazione di quelle di massa. 

Il linguaggio è cresciuto con la civiltà. Forme, strutture e temi sono mutati con i mutamenti culturali nella storia. La struttura semantica dello spazio architettonico, nelle sue infinite varianti o consolidate invarianti, ha accompagnato il cammino dell’uomo, dal tempio greco all’odierna architettura computerizzata, e proprio l’architettura, con le sue continue interpretazioni nella storia, sembra smentire l’assunto di Eco, sì che, se è vero che la fiaba dei tre porcellini non può che raccontare di tre porcellini, nessuno può impedire ad un nonno di raccontarla con 10, 100, infiniti porcellini, o immaginare un tempio greco con il frontone dipinto di blu, che, a pensarci, era di fatto proprio di tale colore! Ci misuriamo quindi con i nostri limiti interpretativi interni alla nostra storia e cultura, diversi da quelli passati e egualmente apparentemente fuori dalla portata del senso, ma è a tali limiti che bisogna forse guardare per non vedere nel banale, a sua volta non senso, se non per superarli almeno per raggiungerli ed aprire l’immaginazione.

Eolico alla Nnuglia.

Nei primi anni novanta, allora ragazzo, andavo in giro per l’Europa, precisamente in Olanda, dove, in un escursione in bicicletta nelle ordinate campagne olandesi, mi imbattei da vicino per la prima volta in una pala eolica. Le avevo viste sui libri di scienza ma, come si sa, da vicino l’effetto fu tutt’altro.  Mi ero imbattuto in precedenza con i loro antenati: i mulini a vento. Anche se semanticamente la parola mulino ci fa venire in mente la produzione di farina, con mio forte stupore scoprii che erano le pompe della più  grande  e  ingegnosa opera idraulica realizzata nel Nord Europa nel XVII sec.. Vennero, infatti,  costruiti per far emergere la terra dal mare ad opera di un popolo che ha dovuto crearsi letteralmente la terra da coltivare sottraendola al mare e è per questo nei secoli hanno continuato a rispettarla.

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Alte, esili ma al tempo stesso possenti, roteavano quasi sincronizzate le une alle altre, allineate lungo la strada che percorrevo. Innanzi a questo prodigio dell’ingegneria umana la mia ingenua esclamazione non poté che essere: “perché noi no, perché noi italiani no”.

A guardarle bene non mi sembrarono tanto difficile da realizzare, anche se non avevo che poche conoscenze di fisica ed elettronica, il principio era noto anche ai bambini, come le girandole con cui eravamo abituati a giocare ed intrattenerci tutti nella nostra infanzia. Un enorme palo d’acciaio, tre o quattro pale in materiale ultraleggero e una dinamo. Il gioco era fatto.

Mi risposi, in prima battuta, che forse da noi non c’era abbastanza vento da poter produrre costantemente energia elettrica ma mi dissero che era sufficiente. Immaginai che l’Italia non avesse abbastanza soldi per poterle realizzare ma eravamo ai primi degli anni novanta e ne avevamo spesi 1.300 miliardi delle vecchie lire per rimodernare gli stadi, di contro, il costo di una pala eolica aveva una spesa di appena un centinaio di milioni di vecchie lire. Un controvalore di 13.000 pale eoliche con una capacità produttiva 615.000 Kw. Una centrale nucleare costa circa in lire 10.000 miliardi e ne produce 1.500 Mw. Allora pensai: perché siamo italiani! e la risposta mi fu esauriente.

Sono passati venti anni e poiché è difficile trovare un gruppo di amici che con un sacco a pelo e un solo zaino sia disposto a viaggiare senza meta per l’Europa, invece che restare comodamente sdraiati al sole su di un lettino in una tranquilla località balneare, si finisce per ripiegare al mare. Quest’anno mi è toccata una località in Calabria: Capo Rizzuto. Nell’estenuante viaggio lungo la famigerata Salerno-Reggio Calabria, con mio stupore mi sono imbattuto in centinaia di pale eoliche e decine di ettari di pannelli fotovoltaici. Disposte in modo caotico, nelle valli, sui monti, in collina tra foreste e terreni aridi, anche la direzione verso la quale erano rivolte sembrava arbitraria, caratterizzavano il panorama che mi si presentava di fronte. Più che l’ordinata campagna olandese mi riportavano alla mente la marcia dei giganteschi martelli del video di “The Wall” dei Pink Floyd.

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Ma che era successo? Tra la valle di Maddaloni e di Durazzano in Campania c’è un monte che ne ha appena sette le quali, da casa, riesco a vederle nei giorni in cui il cielo è terso, ma vederne centinaia d’improvviso è stupefacente, soprattutto in una regione, come la Calabria, di cui tutto avrei immaginato eccetto che si fosse d’improvviso riconvertita nella produzione di enorme quantità di energie rinnovabili.

Al mio ritorno ho iniziato un po a documentarmi e con mio sommo stupore e rammarico ho scoperto che quello che per anni avevo considerato essere il futuro dell’energia, d’improvviso è risultato essere il presente del business della mafia. Il giro di affari delle pale eoliche solo quest’anno è stato di 230 miliardi di euro, tutti prelevati dalle bollette della luce degli italiani,. Nei mesi scorsi avevano arrestato alcuni faccendieri di una multinazionale per evasione fiscale, sequestrati 1,5 miliardi di euro in vari conti ed è emerso che le pale eoliche facevano e fanno fare alle aziende che le gestivano più soldi nella loro fase di istallazione che nella loro effettiva produzione di energia. Sgravi fiscali, incentivi e finanziamenti, creavano un circolo vizioso in cui società di comodo, multinazionali, come delle scatole cinesi, da un lato raccoglievano soldi e dall’altro riciclavano quelli provenienti da attività criminali. Che le pale eoliche fossero servite a fare soldi me ne sarei dovuto accorgerne durante il mio viaggio in Calbria, perché, vento o non vento, molte non giravano ed alcune erano istallate anche al di sotto del ciglio dei montagna. La loro disposizione caotica aveva adesso un senso. Un terreno inedificabile perché prossimo ad un area protetta, o arido perché appena incendiato, scosceso e roccioso, quale valore avrebbe mai potuto avere? Con l’istallazione delle pale eoliche fino a 450 mila euro al mese di affitto. E le amministrazioni locali? Corrotte o non, condizionate o non, come avrebbero potuto dire di no a chi proponeva energia pulita, ecologica e soprattutto con progetti apparentemente inattaccabili a qualsiasi valutazione costi-benefici? Chi avrebbe nel profondo Sud dell’Italia detto di no al progresso sostenibile, dove scarseggia anche quello insostenibile? In Calabria, ho imparato a mie spese, anche le cose che serbano buone da mangiare, vanno prima assaggiate con cautela. Un apparente innocua bruschetta al pomodoro o una salsiccia, che al primo morso può essere deliziosa, dopo pochi secondi, improvvisamente, si trasforma nell’anticamera dell’inferno. Ti senti ardere le labbra, la lingua, la gola e fino a quando le tue papille gustative non cessano di farti soffrire ti domandi: “ma sono pazzi?”. Le pale eoliche hanno avuto su di me lo stesso effetto: vedi le prime è ti meravigli piacevolmente, poi ne scorgi all’orizzonte centinaia che tutto danno eccetto l’idea di sostenibilità e ti domandi: “ma sono pazzi?”.pale-eoliche

L?ingenua domanda che mi posi in Olanda oggi mi ritorna in mente come vent’anni fa, anche se leggermente diversa: “perché noi?” la risposta è rimasta purtroppo identica: perché siamo italiani!

Brucia!

Nei miei pensieri affiora l’immagine delle Torri Gemelle, il nefasto giorno dell’ 11 settembre del 2001.

Un aereo si é appena schiantato su uno dei due edifici, i passeggeri, sono tutti morti, le loro vite spezzate, i loro sogni svaniti. Negli uffici già affollati segretarie e impiegati si accingevano a lavorare. Era un giorno come tanti, alcuni Pc erano rimasti accesi tutta la notte, c’era un lavoro da finire, il capo aveva urgenza di avere gli ultimi report sulle vendite. Il lavoro andava consegnato.

Immagino la scena, i loro volti, le loro vite. Immagino e nella mia mente si genera lo stesso caos, la stessa vita caotica. L’immagine ritorna improvvisa sull’esplosione: un boato, la temperatura che sale improvvisa, lo spostamento d’aria, il buio.

Sono davanti la tv, é tardi, sono in overdose di Talk show, la manovra di Monti é stata varata. “Decreto salva Italia” hanno chiamato questa nuova finanziaria.: 30 miliardi di euro. A luglio ne avevano fatta già una da 20 miliardi di euro, per un totale in soli 5 mesi di 50 miliardi di euro. Ma quanto sono 50 miliardi di euro? Tanti.

Mi spiegano che i sacrifici vanno fatti, lo vuole il “mercato”. Ma chi saranno costretti a farli?

Immagino le loro facce, pensionati che non arrivano a fine mese che saranno costretti a stringere di più la cinta, lavoratori stanchi che dovranno aspettare qualche anno in più per andare in pensione, costretti a continuare un lavoro che li ha già alienati, giovani che vedranno svanita la loro speranza di avere una pensione. Immagino i loro visi, i loro pensieri e mi angoscio, come mi era accaduto prima.

Ma negli occhi dei politici e ospiti dei Talk show non riesco a scrutare questa angoscia, l’unico biasimo è rappresentato da un unico pensiero: “era necessario, i mercati ce lo chiedono”. Mi scuoto, mi tormento ed improvvisamente mi rivengono in mente le immagini delle torri gemelle, questa volte vuote. Riesco a vederle con gli stessi occhi dei politici e dei giornalisti dei talk show, vedo solo ciò che esse sono nell’intrinseca rappresentazione del loro simbolo e funzione. Immagino di leggere i nomi delle società che hanno sede nel loro interno: banche, società di rating, società di broker e finanziare. Il “mercato”. Questa volta vedo con lo stesso stato d’animo razionale dei banchieri prestati alla politica che oggi ci governano, questa volta davanti all’immagine dell’11 settembre del 2001 un solo un pensiero si figura nella mia mente: BRUCIA!