Paolo Soleri da visionario a veggente.

Tra gli architetti contemporanei nessuno più di Paolo Soleri (Torino 1919, Cosanti 2013) ha dedicato l’intera esistenza alla ricerca e alla sperimentazione di un modello di sviluppo architettonico basato essenzialmente sulla costituzione di una comunità urbana.

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Arcosanti è stata (e resta) l’esperienza architettonica in cui, in un continuum spaziale, le necessità soggettive e collettive si incontravano inverando quella che Bruno Zevi definiva “Urbatettura” o architettura a scala urbana.

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Soleri, erede dell’esperienza organica di LL. Wright che conobbe e frequentò, contemporaneo e forse ispiratore dei movimenti dell’avanguardia architettonica degli anni ’60 come Archigram e Metabolism, iniziò la sua ricerca negli Stati Uniti d’America dove si era trasferito nel primo dopoguerra (1947). I grandi spazi deserti dell’Arizona lo condizionano a tal punto da poter immaginare, cosa difficile in Europa, che potesse essere fondata una nuova città: Arcosanti. Gli architetti Europei erano costretti, invece, a scontrarsi e confrontarsi con un tessuto storico radicato e stratificato, con problematiche legate alla conurbazione e l’esplosione delle città storiche che negli anni sessanta iniziavano inesorabili a crescere in maniera esponenziale entrando prepotentemente con le loro contraddizioni nel dibattito culturale architettonico. I temi erano la pianificazione e costruzione dei nuovi quartieri residenziali e l’espansione delle periferie metropolitane. L’Arizona offriva a Soleri un nuovo e stimolante scenario su cui agire: il vuoto.

Nella ricerca architettonica ogni esperienza può essere scomposta in tre elementi fondamentali, indipendentemente dall’impianto culturale di riferimento. La scomposizione di un siffatto sistema riconduce sempre all’individuazione di un processo di analisi, la determinazione di un modello teorico e l’elaborazione di una proposta progettuale. In ogni ricerca che possa definirsi tale, questi tre elementi diventano invarianti riconoscibili che consentono allo studioso, al critico o al ricercatore di classificare e catalogare sia i movimenti artistici che quelli architettonici storicizzati

Con Soleri ciò non avviene, o meglio non avviene in modo canonico. Gli studi di Soleri sono rivolti alla costruzione di un modello nuovo di sviluppo, una città interamente realizzata per soddisfare l’intero e complesso fabbisogno di una comunità. Nel vuoto non esiste nulla da salvaguardare, nulla da valorizzare, nulla che possa essere pregiudizievole alla realizzazione dell’intervento. Ad Arcosanti, non assistiamo al materializzassi di un neo razionalismo in cui l’edificato si va configurandosi “a prescindere” dell’esistente perché il nulla non è prescindibile. Il nulla, infatti, non è riconducibile ad un’astrattismo della realtà, il nulla non è materico, il nulla sta all’architetto come l’amnesia sta allo storico. La ricerca di Paolo Soleri è immaginare una città autosufficiente, dove si inverino tutte le relazioni umane, progettando ogni spazio, ogni funzione e dare forma a tutti i comportamenti umani, comportamenti da re-inventare.

Leggere o rileggere i suoi scritti a distanza di anni, rivedere i suoi disegni che rappresentano megalopoli immaginarie, ci fa riflettere sul perché e sul come si sia formata in Solari l’idea che tutto ciò era possibile. Non possiamo, infatti, trascurare la circostanza che, a differenza dei “Maestri” dell’architettura moderna, Paolo Soleri ci provò, investendo in prima persona. Arcosanti esiste: è materia, non è un caso che si trovi nel nulla; non è certamente una megalopoli ma ne rappresenta “in nuce” lo spirito come il DNA, presente in ogni cellula rappresenta la natura e le relazioni che esistono nell’intero organismo complesso.

La spinta ideologica di Soleri trova le sue radici nel dibattito culturale degli anni ’60 statunitensi. La competizione economica tra i due blocchi sociali e politici allora contrapposti stimolava la spinta verso nuovi modelli di sviluppo economici e tecnologici. La corsa alla conquista dello spazio, della Luna ed infine l’idea di colonizzare l’universo erano più di oggi temi di dibattito e studio in tutte le università e centri di ricerca. Il mondo occidentale aveva il suo “Vallum Aelium“ (o Vallo di Adriano), come un tempo l’impero romano, rappresentato dalla “cortina di ferro” che divideva l’Ovest dall’Est. Oltre non si andava, non si poteva andare, l’unica direzione in cui estendersi era il vuoto dell’universo cosmico.

E’ in questo clima politico e culturale che nascono i primi studi e ricerche per la realizzazione di colonie spaziali; milioni di dollari e rubli vengono investiti nella ricerca di modelli di comunità autonome e autosufficienti. Quale migliore occasione per gli studiosi era questa per comprendere e conoscere il complesso delle necessità umane necessarie per far sopravvivere un gruppo nutrito di persone isolato dal mondo, lontano dal mondo?

Si iniziano a studiare spazi dove singoli o gruppi di persone possano vivere per un indeterminato periodo di tempo in un luogo lontano dalle risorse, allora considerate inesauribili, della terra dove anche la razionalizzazione dell’aria era condizione necessaria alla sopravvivenza. Progetti in cui l’Habitat umano andava prima creato e poi mantenuto in costante equilibrio, contraddicendo tutto quanto stava accadendo e accade ancora nelle nostre città.

La cinematografia, forma d’arte narrativa, rappresentava questa tensione ideologia: si passò nell’arco di trent’anni dai film come “Metropolis”, in cui il futuro della città era rappresentato da enorme megalopoli divisa in classi sociali che utilizzava gli aerei come mezzi di trasporto urbano ai film degli anni ’60 come “Planet of the Apes”, in cui un mondo, dominato dalle scimmie, l’uomo era ridotto in uno stato di schiavitù generato da egli stesso e che non a caso terminava con una maledizione del protagonista all’intera umanità: ”Voi uomini l’avete distrutta [la Terra]! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!”. Si era passato dall’immaginare un futuro fatto di progresso ad un futuro distrutto dal progresso.

In questo periodo erano iniziati i primi studi sui comportamenti dei primati, base anche degli studi antropologici. Più che le similitudini tra l’uomo e le scimmie si studiano la differenze, venivano anche addestrati per missioni spaziali. Nella società si era iniziata a formare anche la convinzione che se i primati avessero potuto parlare avrebbero dominato il mondo perché noi non ne eravamo stati capaci.

Negli anni ’60 e 70′ si viveva con la paura di una catastrofe nucleare imminente e la ricerca era spinta ad individuare tutto ciò che valesse la pena di essere salvato. La sopravvivenza della specie umana era legata ad una sopravvivenza culturale, non bastava però salvare gli individui andava salvato e protetto ciò che di grande questa aveva creato. Per farlo era necessario catalogare, codificare, scomporre le esigenze immateriali umane, senza queste l’uomo non poteva che essere poco diverso dai primati.

La ricerca continuava su questi temi, le tesi evoluzionistiche si implementavano con quelle antropologiche: come l’uomo socializza e si relaziona con il mondo che lo circonda? come vanno individuati i bisogni psicologici e come sganciarli dai bisogni biologici? quali sono le manifestazioni e relazioni umane che concretizzano il concetto di comunità o comune?

In che modo tutto questo influiva sui linguaggi dell’arte?

Il razionalismo, per definizione, trasformava un sistema complesso in uno essenziale, in sostanza lo astrae; l’avanguardia, di contro, proponeva un sistema complesso, materico, organico, al limite dello spirituale. Nella ricerca architettonica il razionalismo degli anni trenta ci aveva spiegato ciò che era possibile, l’avanguardia degli anni sessanta ciò che era necessario.

Un altro filone di ricerca era indirizzato alle singole esigenze umane, l’uomo, questa volta da solo, con l’insieme delle sue necessita biologiche e spirituali, solo nello spazio o solo nel ruolo di sopravvissuto ad una catastrofe nucleare. Saggi, romanzi, film, fumetti hanno tutti un minimo comune denominatore, di cosa abbiamo bisogno per sopravvivere. Cosa c’era di diverso nella ricerca del “exisenzminimum” fatta durante il razionalismo? Tutto.

La ricerca razionalista basava il suo paradigma nel cultura socialista: il fine era quello di rendere possibile il necessario per tutti: non solo case a basso costo; razionalizzazione dei trasporti, razionalizzazione attraverso la zonizzazione della città e delle sue funzioni; ma anche la riduzione al minimo delle funzioni all’interno della residenza a vantaggio dei servizi presenti e condivisi nell’edificio: lavanderia, biblioteca, ludoteca, spazi sociali.

L’Unité d’Habitation di Marsiglia con i suoi 1500 abitanti, i 17 piani e 337 appartamenti, scuole, asili, negozi, ristoranti al suoi interno ne diventa il monumento.

I bisogni vengono divisi in quelli spirituali e psicologici da un lato (individualità) e quelli relazionali e sociologici dall’altro (comunità in cui l’uomo si relaziona).

La città, pero, continua ad essere vissuta per quella che è: un mondo corrotto, la trasformazione riguarda solo la sua “razionale” espansione.

Paolo Soleri immagina altro, nel 1970 fonda in Arizona la sua Arcosanti prototipo di una città “arcologica”, questa deve essere autosufficiente, energicamente e produttivamente. Non razionalizza un sito esistente adeguando il costruito alle nuove necessità ma progetta spazi per nuove funzioni. Come nella cultura Hippy, l’uomo non si adatta allo “status quo” ma rinasce.

Non ci troviamo di fronte ad una evoluzione tecnologica della società, non è la Roma di Nerone post-incendio del 64 d.C., da riprogettare e ricostruire, ma è la “terra promessa” di Mosé dove Soleri vuole guidare tutti noi.

Arcosanti inizia a crescere come un villaggio: attorno ad un focolare si costruiscono le prime abitazioni. La comunità in poco tempo raggiunge il centinaio di abitanti. La struttura principale è una semicupola aperta, orientata in modo da filtrare i raggi del Sole d’estate e permettere il loro accesso nei mesi invernali. Nell’arco di trent’anni vengono costruite altre strutture collettive come le fabbrica di produzione di manufatti in ceramica, un teatro, una biblioteca, etc..

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Arcosanti ripercorre i primi passi della “rivoluzione urbana” del periodo neolitico. La tecnologia è sicuramente contemporanea: il cemento armato e la prefabbricazione delle parti strutturali degli edifici ne testimoniano la contemporaneità. Le abitazioni, disposte circolarmente, sono strutture seminterrate, la loro realizzazione un misto tra scultura e architettura. Come casseri per la realizzazione delle volte viene usata la sabbia del deserto; collinette artificiali diventano l’intradosso delle strutture. La superficie della collinetta viene incisa con segni e simboli che, una volta gettato il cemento, restano impressi sulla superficie voltata dell’abitazione. La casa riprende la sua forma originaria: una caverna con impresse le sue pitture rupestri.

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il rapporto di Soleri con la tecnologia è chiaro come egli stesso ci scrive: “L’intenzione è di chiedere il massimo alla tecnologia senza concederle alcuna libertà”. Per Soleri non può esserci un’evoluzione ma solo una “rivoluzione”.

L’unico limite è (e resterà) la difficoltà di trovare persone disposte a abbandonare i propri stili di vita per trasformarli radicalmente. Vivere o meglio “con-vivere” nella comunità di Arcosanti per molti rappresenta una “regressione”, per i suoi abitanti una “evoluzione”. Lo stesso Soleri ammetterà: “Il concetto di Arcologia racchiude in sé l’idea della necessità di un cambiamento di coscienza e di atteggiamento – la percezione del fatto che il nostro attuale modo di vita è probabilmente non sostenibile e forse persino non etico (…) Qui, dove vita e lavoro sono una sola cosa, non puoi isolare l’uno dall’altro. In molti aspetti, le persone che stanno lavorando qui sono eroi”

Due anni dopo la fondazione della città di Arcosanti, nel 1972 il Club di Roma, in collaborazione con il MIT (Massachusetts Institute of Technology) pubblicò una ricerca destinata a lasciare un segno indelebile nel dibattito culturale: “The Limits to Growth” (i limiti dello sviluppo). Un lavoro minuzioso, scientifico, dettagliato che non lasciò spazio ad altre interpretazioni, il risultato della ricerca era chiaro: se continuiamo così non sopravviveremo. Nonostante il progresso tecnologico, la crescita della popolazione, e il miglioramento del reddito pro-capite, la progressiva diminuzione delle risorse naturali e, l’espansione industriale, lo sfruttamento dei suoli e il conseguente aumento dell’inquinamento produrranno un collasso socio-economico nei prossimi decenni. Qualunque sia lo scenario che si prospetti, secondo lo studio dei ricercatori del MIT, il collasso avverrà entro il 2100.

Sono passati decenni ma è da quel momento che le ricerche utopiche degli anni sessanta, mai prese seriamente, criticate da più parti, diventano oggi possibili alternative di sviluppo. La consapevolezza del disastro naturale imminente (quello di una guerra nucleare ormai scongiurato), sia in America che nella ricostituita Europa post “guerra fredda”, hanno nel giro di pochi decenni costretto i governi a trasformare in norma legislativa quello che decenni prima erano solo appunti su un blocco di schizzi: consumo di CO2 pari a zero; autosufficienza energetica per le grandi città; ciclo di recupero dei rifiuti e delle materie prime; risorse energetiche alternative ai combustibili fossili in esaurimento; contenimento energetico degli edifici; bioarchitettura; Green economy; etc.

Soleri aveva visto lontano ma mai avrebbe immaginato che quel luogo inospitale che avrebbe dovuto accogliere una comunità non sarebbe stato lo spazio profondo né un villaggio dell’Arizona ma l’intero pianeta Terra.

Uruk la prima città – La nascita della Metropoli

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Molti studiosi si sono interrogati su quale sia stata o possa considerarsi la prima città della storia, la più antica. Studi, ricerche, scavi hanno portato a risultati spesso contrastanti. Troia, ad esempio, è stata fondata e rifondata più volte. Distrutta e ricostruita su se stessa, è stata oggetto di numerosi e documentati scavi che la fanno risalire al 3000 a. C. ma si crede che all’epoca potesse essere poco più che un villaggio neolitico. Ur e Uruk, invece, si contendono il titolo. Entrambe le città furono fondate dai sumeri e poi occupate dai babilonesi. Siamo intorno al 4000 a. C. altre sei millenni fa. Cosa distingueva una città da un villaggio? La questione è molto dibattuta, oggi sarebbe facile dirlo: il numero di abitanti. Per gli storici il problema, invece è più complesso. In questa sede ometteremo le date degli scavi, gli archeologi che se ne sono occupati, perché non è nostro interesse fornire nozioni ma ispirazioni. Vi diciamo subito che Uruk è considerata la prima città perché fu la prima ad avere una società divisa per classi, perché fu la prima ad avere la specializzazione del lavoro. In sostanza, una città è tale se ha già i suoi mali. Uruk, seimila anni fa, era una città.

I contadini, infatti, vi si recavano per acquistare i semi e non avendo moneta si impegnavano a dare una parte del raccolto in quantità maggiore del valore dei semi. Oggi lo chiamiamo tasso di interesse, già.

Molti villaggi avevano un mercato, lo scambio avveniva con il baratto ed era immediato. Una pecora veniva scambiata per un piccolo maiale o qualche sacco di farina e così via. Questi villaggi potevano essere enormi ma erano pur sempre villaggi di pastori, di contadini, di pescatori se vicini alla costa. Solo in uno si poteva chiedere di avere in prestito dei semi per coltivare la terra, quel villaggio era Uruk. Gli abitanti non lo sapevano ma vivevano in una città. Come potevano, però, ricordarsi dopo mesi chi doveva a chi e quanto doveva, si sa Verba volant, scripta manent, appunto. Su una tavoletta di argilla con un piccolo cuneo di legno si inizio ad incidere un appunto: “Tizio da a Caio, che riceve, una manciata di semi. Caio, in cambio, darà a Tizio tra sei mesi due sacchi di cereali”.

Che delusione! Studi, ricerche, scavi, spedizioni, libri, convegni, seminari per scoprire che le città nascono quando nasce lo sfruttamento delle classi sociali e la prima cosa che l’uomo ha pensato di scrivere non è una lettera d’amore ma una cambiale.

 

Province si, Province no. Riorganizzazione della pianificazione

In questi giorni si discute del ruolo delle Province nel sistema architettonico amministrativo dello Stato, la loro peculiarità quali enti intermedi tra comuni e regioni.

Queste sono, nell’immaginario comune, considerate quali enti superflui, causa e conseguenza dello spreco e spesso sperpero di risorse altrimenti utilizzabili.

Non si ha pienezza del loro ruolo sia all’interno del panorama amministrativo, sia in quello programmatico. Eppure le Provincie svolgono, anche se sia giusto dire dovrebbero svolgere, un importante ruolo di coordinamento sovracomunale. Le competenze, infatti, della pianificazione territoriale spettano alle provincia.

I P.U.C. (Piani Urbanistici Comunali) sono strumenti di pianificazione di secondo livello, almeno in quelle che erano le indicazioni della Legge Urbanistica Nazionale, subordinati alle indicazioni dei P.U.T. (Piano Urbanistico Territoriale) di competenza delle Provincie.

I P.U.C. vengono adottati dai Comuni, inviati alla Provincia che ne verifica sia la correttezza degli atti, delle prescrizioni ma soprattutto questa verifica la compatibilità con la pianificazione e programmazione strategica sovracomunale.

La ratio vorrebbe che tutte le province fossero dotate di Piani di Coordinamento vigenti e soprattutto condivisi dalla comunità a cui sono rivolti. L’importanza dell’esistenza di un ente sovracomunale intermedio che sia di raccordo e di equilibrio tra le spesso conflittuali esigenze che interessano ambiti e comuni limitrofi – si pensi alla sola localizzazione di impianti di compostaggio, inceneritori e addirittura discariche – non può che trovare il suo naturale luogo in un ente terzo con competenze specifiche.

Le Province, dunque, se colpa hanno, è quella di essere state assenti in questi processi svolgendo un ruolo secondario, spesso di mero spettatore delle  istanze locali.

Oggi si considerano enti inutili, le cui funzioni possano essere facilmente delegate ma all’interno di una corretta pianificazione, gestione e controllo del territorio se non ci fossero bisognerebbe inventarle.