Dall’agorà al social network

Pestum

Bruno Zevi scriveva, ormai nel lontano 1948, in Saper vedere l’architettura: “Che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi o da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la scena dove la nostra vita si svolge.”[1]

I testi di Zevi sono stati il fondamento della cultura architettonica di almeno tre generazioni di architetti italiani. Che l’architettura sia lo spazio dove si inverano le relazioni umane è diventato l’assioma euclideo di tutte le correnti culturali che dal dopoguerra ad oggi si sono formate ed hanno accompagnato il cammino degli architetti e la lettura della critica architettonica.

La “verità evidente” euclidea[2], non lontana dalle citazioni delpostmoderno, trasferì in quegli anni dalla materia allo spazio il valore architettonico: spazio fisico carico di valori formali, simbolici, storici. Dagli anni cinquanta e per tutto il XX Sec., su binari differenti, la cultura architettonica percorse il suo viaggio nel tempo. La critica, ugualmente, rileggeva e soprattutto riscriveva il percorso dell’uomo nella storia. Il focolare domestico per la casa, l’agorà per la città erano il centro dello spazio cosmico attorno al quale nascevano, si radicavano le strutture culturali e sociali della civiltà.

Nella città eterna, Roma, tra la meta del I sec. a.C. e il I sec. d.C., nell’arco di appena 150 anni vennero costruiti quattro fori imperiali, tutti nello stesso luogo. Il foro cambiò forma, orientamento ma conservò tutti i valori simbolici e funzionali originari. L’agorà per i greci, il foro per i romani, la piazza del mercato dal medioevo in poi, a scala urbana, rappresentarono il luogo, lo spazio dove si costruirono le relazioni umane, dove si scambiavano le merci, le idee, dove si caratterizzava l’identità culturale di una civiltà. Lo spazio fisico fu e restò il protagonista dell’architettura.

La domanda che ci poniamo è se anche oggi è così, o meglio, se anche oggi è solo così come Zevi ci ha insegnato. Come sempre accade, la pittura, l’avanguardia delle arti figurative del novecento, fu la prima a leggere einterpretare i cambiamenti della società, svincolata, a differenza dell’architettura, dalla necessità di soddisfare esigenze plurime ma materiali. Tra gli anni ’30 e ’60 la forma riconoscibile della realtà si astrasse fino a scomparire dalla tela (Piet Mondrian, Kazimir Malevich). Negli anni ’50 e ‘60 la materia diventò protagonista, caricata del significato simbolico del gesto (Alberto Burri, Jackson Pollock). All’irrompere dei media nella vita quotidiana, la Pop Art ne rappresentò limiti e opportunità (Roy Lichtenstein, Andy Warhol). L’architettura, nel contempo e in tutto il suo evolversi nella storia, si era caratterizzata nello spazio; spazio mutevole, come mutevoli furono i comportamenti umani. Uno spazio fisico, immanente, ricco di significati, di molteplici letture, di infinite varianti. Nella pittura, però, avvenne ciò che nell’architettura era in qual periodo tecnicamente impossibile: la forma, il colore e finanche la materia scomparvero, restò solo la tela. Lucio Fontana attraversò la tela e con un gesto creò, nei primi anni ’60, il suo primo “Concetto spaziale”. Gli architetti non lo seguirono, almeno per il momento. Negli anni ’70, Christo e Jeanne-Claude prevaricarono i confini: lo spazio architettonico era statico, almeno nel suo complesso, e venne impacchettato con corde e teli di plastica. Sottratti alla vista, i monumenti, i palazzi, le chiese e i ponti abdicarono all’arte. La ricerca architettonica tra gli anni ’60 e ’70 era distratta dal soddisfacimento di bisogni contingenti sopraggiunti: la città, la casa, i luoghi dove si inveravano le relazioni umane andavano reinventati, adeguati, adattati, ristrutturati e, come era iniziato ad accadere nelle grandi e piccole città europee, salvaguardati e tutelati.

Era giunto il momento di muoversi. questa volta sul serio. Piano e Rogers, immaginarono, almeno nel primo progetto, che il loro edificio, il Centro Pompidou di Parigi, si potesse muovere: l’altezza dei piani sarebbe potuta variare al variare delle necessità. La tecnologia adesso lo permetteva, il budget no.

L’arte continuò, inesorabile, la sua corsa in avanti: scomparve lo spazio, l’arte diventò “Concettuale”. Lo spazio restò momentaneamente il luogo dove si compivano i gesti (“Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua” di Gino De Dominicis), il luogo dove artisti come Joseph Beuys posero l’umanità di fronte ai propri orrori. Senza rendersene conto, gli artisti, entrando nel tubo catodico, si trasferirono in un nuovo spazio. I media si trasformarono da mezzo di conoscenza a fine della coscienza collettiva. Beuys riprese le sue performance, Studio Azzurro, collettivo di video-artisti, ne amplificò fino all’eccesso le potenzialità. Lo spazio architettonico era ormai, seppure in ritardo, in moto. L’architettura diventò de-costruita, fluida, dinamica, non è un caso che una delle personalità emergenti degli anni ’90 che si pose tra le archistar indiscusse del XXI secolo fu Zaha Hadid. Non è un caso perché, anche se naturalizzata britannica, il suo retroterra culturale era lontano dalla storia, lontano dal peso della tradizione. Laureata, prima in matematica, la scienza astratta per eccellenza, approdò all’architettura solo dopo la collaborazione con Rem Koolhaas e Elia Zenghelis (OMA): i maestri non si seguono, si superano.

L’architettura è ormai fluida, oseremmo dire liquida e persino gassosa, come nella “Nuvola” di Massimiliano Fuksas. Siamo arrivati al limite dello spazio fisico. Dopo oltre mezzo secolo dal taglio della tela di Lucio Fontana, che segnò il salto della pittura dalla materia allo spazio, siamo arrivati all’architettura che ha modificato la natura del suo spazio fisico. Abbiamo, però, perso di vista in questo viaggio “la scena dove la nostra vita si svolge”. La scena, appunto. Zevi, infatti, nel suo scritto rimandava ad una scena, un ambiente. Rileggendo, ci piace immaginare che nella sua definizione egli abbia, in nuce, previsto ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte: nelle relazioni umane lo spazio, nella sua accezione fisica, è scomparso! In un futuro non remoto gli architetti si troveranno a misurarsi con i nuovi luoghi dell’architettura, scene che, per l’appunto, oltrepassano i confini dello spazio fisico diventando immateriali.

Torniamo per un attimo indietro di qualche millennio. I più antichi manufatti dell’umanità sono costituiti da pietre di selce lavorate in modo da essere rese taglienti, avevano lo scopo di poter aumentare nell’ominide la sua capacità offensiva e difensiva. Tra i primati, gli antenati dell’uomo erano quelli capaci più degli altri di difendersi, di uccidere. Riconosciuta la sua straordinaria capacità di realizzare oggetti, l’uomo iniziò a produrre utensili finalizzati al soddi-sfacimento di bisogni diversi, quali la conservazione dei cibi, il trasporto dell’acqua, la decorazione per il proprio corpo, finanche la realizzazione di oggetti rappresentanti valori assoluti la cui finalità assumeva caratteri sacri ed ancestrali. Anche se creati dall’uomo questi oggetti assumevano, nelle loro fattezze, la sacralità degli idei. La manualità aveva dato vita alla coscienza della società umana.

Durante la seconda guerra mondiale, le necessità belliche avevano spinto gli scienziati tedeschi a immaginare una bomba che potesse raggiungere, lanciata dalle coste continentali, le città inglesi senza che fosse necessario trasportarla per via aerea. La contraerea britannica aveva sviluppato, infatti, un sistema di difesa capace di prevenire e reagire ai raid aerei: si era dotata dei radar. Una bomba di diverse tonnellate di esplosivo dotata di autonomo sistema di lancio e volo prendeva il nome di V2: il primo missile. Era nata l’era della propulsione a reazione. Oggi questa invenzione, nata per uccidere, ci consente di viaggiare in aereo tra un continente e l’altro consentendoci di portare nello spazio i satelliti meteorologici e quelli delle comunicazioni sino ad far atterrare le prime sonde su Marte.

Durante la guerra fredda, negli anni ’60, la difesa americana iniziò a sviluppare una tecnologia capace di mantenere intatti i collegamenti tra le basi militari che eventualmente fossero sopravvissute ad una catastrofe nucleare. Alla fine degli anni ottanta questo sistema, scongiurato il pericolo, venne ceduto all’industria civile: la difesa militare americana, senza probabilmente rendersene conto, aveva donato all’umanità la più grande invenzione destinata a trasformare la vita di tutti i giorni. Questa tecnologia prese il nome di Internet.

Come spesso è capitato nella storia dell’uomo, lo sviluppo di tecnologie nate per soddisfare il più primitivo bisogno di offesa e difesa dell’uomo contro l’uomo è finito per diventare esso stesso strumento di relazione tra individui, società e civiltà diverse.

“Every tool is a weapon if you hold it right” (Ogni strumento è un’arma se si tiene bene) scrive Ani Di Franco. Ogni oggetto creato dall’uomo, una volta prelevato dall’artista è posto così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria potrebbe persino mutarsi in un’opera d’arte, ci insegna con la sua “fontana” Duchamp. Le cose sono così come sono spetta a noi riportarle all’arte, secoli prima affermava Federico II.

A cosa ci rimanda tutto ciò? I Social network sono in pochi anni diventati lo strumento che in assoluto produce e mantiene le relazioni sociali tra le nuove generazioni, nuove agorà di scambio di informazioni e idee. Le merci, per evidenti ragioni sono, almeno per adesso, tenute fuori ma se consideriamo il valore del prodotto economico dei servizi rispetto alle merci e il peso economico che queste hanno nella nostra economia, ci rendiamo conto dell’equivalenza tra il vecchio e nuovo foro della società contemporanea.

Similitudini di linguaggio e concettuali si sono già consolidate nella costruzione di questo nuovo spazio: portali di accesso, autostrade telematiche, finestre di dialogo, rimandano a spazi o elementi fisici colle-gando in maniera segni e cose tra loro altrimenti non relazionabili. In questo nuovo spazio ci si muove, seppur lessicalmente, come in uno spazio fisico, si naviga in rete, si aprono finestre, si chiudono appli-cazioni. Nella nuova dimensione ci si può anche perdere, come in “Lost in Google[3]. L’avanguardia non è più arte ma tecnologia, anche questa immateriale. Migliaia di designer vengono impegnati nel mondo per progettare e realizzare dispositivi, tablet e smartphone, necessari per trasmigrare in questo nuovo spazio. La manualità, la tecnica e l’ingegno sono completamente dedicate ai nuovi strumenti di connessione alla rete, così come i bilioni di dollari investiti. La connettività tra il materiale e l’immateriale travalica i suoi confini, come fece un tempo l’arte con l’architettura. La casa è domotica, connessa con i suoi abitanti, dialoga continuamente con loro: accende il camino prima che i suoi abitanti rientrino, partecipa alle attività domestiche e chiede aiuto in caso di infrazione.

Come ogni nuovo continente, il nuovo non-luogo viene colonizzato da culture e civiltà diverse e diversificate che ne caratterizzeranno e comprometteranno nel tempo il suo sviluppo. Non è, infatti, un caso che gli Stati Uniti erano una colonia britannica, il Canada, francese, il Messico e buona parte del Sud America, spagnola, e la restante portoghese. Un imprinting culturale oltre che linguistico che si è conservato nei secoli.

La sfida adesso è lanciata: quale sarà l’imprinting che la cultura architettonica contemporanea riuscirà, prima che sia troppo tardi, a dare a questo nuovo spazio dove si relazionano e relazioneranno sempre più le persone?Facciamo un altro piccolo passo indietro. Bill Gates, fondatore di Microsoft, negli anni novanta pubblica un saggio scritto a quattro mani dal titolo “La strada che porta al domani”[4]. Letto a quell’epoca il testo poteva essere considerato, come tanti altri pubblicati da manager di successo, un’autobiografia celebrativa di un giovane ragazzo diventato miliardario per aver investito tutto il suo tempo e i suoi pochi soldi in un azienda che scalerà le vette di Wall Street. Dal testo estrapoliamo due concetti che apparivano allora secondari. Il primo l’ammissione di colpa per aver, nella sua prima fase di sviluppo dei suoi software, sottovalutato l’apporto del web e di internet[5]; il secondo, la visione che il futuro sarà costituito da un capitalismo “senza attrito”, fondato ed alimentato dalla connettività tra le persone. Il testo si chiudeva con l’affermazione che la diminuzione del lavoro prodotta dalla diminuzione dell’attrito del capitale avrebbe aumentato il tempo libero che sarebbe stato impegnato nel soddisfacimento di bisogni intellettuali favoriti dalla connettività. La bolla economica statunitense ha infatti creato milioni di disoccupati che impegnano il proprio tempo postando e messaggiando connessi ai Social network. I due aspetti, apparentemente slegati dalla critica architettonica devono essere, al contrario,considerati alla stregua dei primi dolmen della storia dell’architettura. Attendiamo, inermi, le nuove evoluzioni delle tecnologiche. Una volta, queste venivano considerate scoperte, come il Nuovi Mondi di Colombo, Vespucci o Magellano: si scopriva il fuoco, la gravità, le radiazioni, la penicillina. Oggi la tecnologia crea nuova tecnologia, rendendo immediatamente obsoleta quella esistente. L’alienazione prodotta dalle nuove forme di comunicazione e relazione è dietro l’angolo, ma altresì le possibilità di socializzazione che esse offrono sono infinite. Questo nuovo spazio è vissuto quasi più dello spazio fisico, le nuove generazioni hanno più ricordi della loro vita postati nei server dei Social Network che nei cassetti delle loro scrivanie. Anche le rivoluzioni che per definizione nascono nelle piazze, hanno trovato nella rete il luogo dove si sono iniziati ad aggregare le istanze delle masse. Gli storici inizieranno a scrivere non più di rivoluzioni come quella di piazza mercato a Napoli del 1647 o di Piazza Tienanmen a Pechino del 1989, ma scriveranno della Primavera araba del 2011 nella nuova agorà di nome Twitter o Facebook.

Questi spazi immateriali posso essere anche invasi. “I barbari. Saggio sulla mutazione”[6] di Alessandro Baricco ci rappresenta una società in mutazione, dove i barbari non sono popolazioni primitive di nomadi che premono sulle mura dell’impero ma una giovane generazione con elevate conoscenze tecnologiche prive di riferimenti culturali, una generazione che non ha bisogno di sapere nulla perché tutte le informazioni sono facilmente recuperabili sui motori di ricerca come Google; non ha bisogno di visitare o conoscere nessuna città, perché possono farlo utilizzando Street View comodamente dal PC; una generazione che condanna o assolve ciò che accade nella “piazza immateriale”, così come nelle arene dell’antica Roma, con il “pollex versus” che assume oggi la più semplice connotazione di “Mi piace”[7]. Questo spazio immateriale è per tutto quanto detto “la scena dove la nostra vita si svolge”, come scriveva Zevi. Questo nuovo spazio sarà l’architettura del prossimo futuro.

Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, i primi maniscalchi del nuovo spazio, hanno definito quale potesse essere questa nuova scena, correndo il rischio di trasformarsi nei faraoni delle nuove piramidi segnando per sempre il cammino di questa odierna civiltà e lasciando a noi il solo compito di trascinare delle grandi pietre.

Note:

[1] B. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, 1948.

[2] In filosofia, contrariamente alla matematica, gli assiomi assumono il significato di verità evidenti tali che non necessitino di essere dimostrate; in matematica l’assioma è la condizione per la quale la dimostrazione del teorema è valida se è vero il postulato anche se non dimostrato.

[3]”Lost in Google” è una web-serie di successo pubblicata da The Jackal sul canale web di You Tube, ottenendo, oltre che diversi premi dalla critica cinematografica, centinaia di migliaia di visualizzazioni.

[4] B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1995.

[5] Nei primi anni novanta la piattaforma di navigazione nel Web era un software di nome Netscape, il colosso Microsoft dal ’95 iniziò una vera e propria lotta, violando le leggi antitrust, al fine di indebolire la presenza sul mercato di Netscape per sostituirlo con Internet Explorer, parte integrante del sul suo sistema operativo.

[6] A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2008.

[7] Il gradimento di un post è rappresentato dagli utenti dei Social Network dall’aggiunta di un “mi piace” che viene attivato da un icona a forma di pollice verso.

Interpretazione e sovrainterpretazione dell’architettura (rivisto e corretto)

Nel libro di Umberto Eco “I limiti dell’interpretazione”, pubblicato nel 1990, sono messe in luce le diverse relazioni tra il significato letterale del testo e le sue possibili interpretazioni. Il libro di Eco è un saggio di semiotica ed ermeneutica e la sua lettura è poco diffusa tra gli architetti, a mio avviso colpevolmente, dal momento che la scrittura possiede una stretta attinenza con l’architettura e l’analisi sui suoi dispositivi, logici e di senso, non può essere ignorata da chi si occupa di forma, struttura e morfologia dell’architettura.

Temi e linguaggi sono legati da una stretta relazione e, soprattutto, si sono influenzati nel loro procedere, nel loro crescere e trasformarsi nella storia. Ogni periodo storico manifesta analoghe strutture “costruttive” nei diversi linguaggi in tutte le varie componenti culturali, in tutte le arti che lo contraddistinguono, in tutto ciò che in sostanza lo caratterizza e lo rende univocamente riconoscibile e, se ciò vale per ogni epoca, vale probabilmente anche per la nostra con i suoi movimenti artistici e culturali. 

Per Umberto Eco i limiti dell’interpretazione sono riassumibili in ciò che “non può essere” o non può costituire il significato di un testo, tra le diverse letture possibili e quella meramente letterale. In tal senso, nella lettura dell’architettura, i “limiti” interpretativi si manifestano nel non poter dire ciò che lo spazio costruito non può essere o divenire, fatto salvo ciò che è o potrebbe essere. Un qualsiasi edificio, progettato per una destinazione, potrà essere interpretato, seguendo Eco, in ogni modo, escluso in quello che contraddice la sua forma, la sua funzione e la sua coerenza interna. Un edificio residenziale non potrà mai essere un campo di calcio ma, di contro, una chiesa potrà assumere la funzione di una palestra, di un centro conferenze o una sala per concerti e, sebbene siano molti gli esempi nel riutilizzo temporaneo o permanente di architetture sia storiche che contemporanee, pure accade spesso che edifici reinterpretati nell’uso e nella forma non rispondano bene, sia funzionalmente che esteticamente, alle nuove definizioni. Ciò vale anche per edifici del tutto nuovi quali quelli di certa architettura contemporanea, di cui può dirsi che, perdendo la riconoscibilità dell’uso e del linguaggio, totalmente liberi, tanto da disorientare il fruitore, non sembrano offrire limiti all’interpretazione e non avere quindi essi stessi alcun limite, sino a sconfinare nell’insensato.

In un’altra raccolta di saggi-colloqui dal titolo “Interpretazione e sovrainterpretazione”, ancora Eco, in polemica con Rorty, per il quale un testo si espone senza limiti ad ogni possibile interpretazione, affronta la relazione tra autore e lettore ovvero la controllabilità delle interpretazioni dei testi letterari indirizzate dall’autore le quali, anche se sembrano sconfinare oltre il senso posto da chi ha scritto, conoscono comunque un limite derivato sia dalla organizzazione culturale esterna al testo che tuttavia lo ha determinato, sia dalla sua coerenza interna che lo rivolge a sensi definiti e non infiniti come vorrebbe Rorty: se le interpretazioni di un testo fossero variabili ed eterogenee e il limite solo ciò che contraddice il testo letterale, allora ogni interpretazione sarebbe legittima ed avrebbe uguale dignità sino a pervenire a sensi contraddittorii e, in definitiva, al “non senso”. Nel caso dell’architettura, in maniera analoga, potrebbe diventare legittimo trasformare una chiesa in una sala Bingo, una palestra in una biblioteca, una fabbrica in un supermercato e così via, sebbene, così come per la scrittura, almeno secondo Eco, non sia possibile renderla tanto elastica da possedere qualsivoglia significato e funzione. Chi si oppone all’assoluta perdita di limiti all’interpretazione che induce l’assenza di sensi definiti, per Eco, è l’Autore Modello, più che l’autore empirico quello che in una certa maniera lo surdetermina in base alle diverse convenzioni della lingua e che introduce nel testo modi per accompagnare il lettore a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quelle che appartengono alla sua sfera culturale. Nell’architettura, quindi, potrebbe dirsi che  l’interpretazione possibile di un testo edilizio o di uno spazio ne può riconoscere la buona fattura se incontra un “limite” che ne esclude il “non senso” (anche quello della infinita interpretazione) e che ci offre altresì la possibilità di discernere l’arte, comunque aperta ai sensi, dal “Kitsch” o peggio dalla banalità. Appare fuori di ogni dubbio, ad esempio, che un opera pittorica di Malevich, per astratta che sia (“Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918), per suprematista che sia è e sempre sarà, oltre che un’opera d’arte, un quadro. Lo stesso dicasi per il Guggenheim di F. LL. Wright o per ville Savoye di Le Corbusier, il primo un museo e la seconda una casa, per citare esempi famosi, e comunque costruzioni con riconoscibili caratteri. Non solo, ma che sia una caverna, una capanna, un igloo o la villa sulla cascata, non sarà per noi difficile distinguere in tutte il senso della casa. Lontani dall’eccessiva possibilità interpretativa che condurrebbe al “non senso”, cioè, sino al moderno i manufatti rientrano appieno, per volontà dei costruttori, dei proprietari o degli architetti che li hanno costruiti, nel significato semantico di un edificio; usi, costumi o periodi culturali che li hanno generati non ne hanno, nel tempo o nello spazio, modificato il “senso”, la riconoscibilità che pur offrendosi all’interpretazione non ne perde la struttura.

Nella nostra realtà attuale, nell’ampliamento delle conoscenze e delle capacità tecnologiche, la ricerca costante del superamento dei “limiti” spinge sempre più la lettura del “senso” della costruzione verso picchi interpretativi inimmaginabili, sia nella rappresentazione, con l’introduzione delle restituzioni digitali che superano i vecchi modi della proiettiva e della stessa prospettiva, che nella realizzazione, attraverso l’utilizzo di materiali e tecniche innovative.

Naturalmente, se ci si attenesse, in ogni campo, alle interpretazioni più consuete, non vi sarebbe avanzamento della conoscenza e solo l’allontanamento dai limiti interpretativi produrrebbe il nuovo sebbene questo sarebbe condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita culturale di una civiltà. 

La Grecia del IV secolo a. C. era sicuramente all’avanguardia nella ricerca del superamento dei propri limiti culturali e filosofici ma ciò non bastava a superare i limiti tecnologici di una civiltà proto-rurale.  

Il dio egizio Amon Rha era rappresentato nel XX sec. a. C. come un uomo dalla testa aquilina sormontata da un cerchio, venerato da una civiltà che non conosceva l’uso della ruota ma riusciva a costruire le più grandi opere architettoniche che l’umanità abbia mai realizzato sino al XVIII sec. d. C., mostrando così di non riconoscere nel cerchio il significato semantico della ruota pur dandone un valore ancestrale.

Il limite all’interno del quale si configura il significato semantico dell’opera o dello spazio, se da un lato rassicura il lettore o nel caso dell’architettura, il fruitore, dall’altro ne riduce lo stimolo alla sua naturale crescita spirituale ed aspirazione intellettuale.

Ritornando alla lettura del testo di Eco, viene mostrato come, mentre nel leggere un articolo di cronaca, ci accorgiamo che questo vale per il solo significato letterale, un brano di un romanzo di Jules Verne, di contro, si pone obbiettivi diversi. Nel primo caso l’autore descrive un evento realmente accaduto, caratterizzandolo aggiungendo o sottraendo particolari descrittivi limitatamente alla sua capacità narrativa o correttezza professionale. Nel secondo, se si utilizza ad esempio il romanzo “Ventimila leghe sotto i mari”, l’autore descrive un mondo che egli stesso non ha mai visto e che si materializza nella mente del lettore in maniera diversa secondo il proprio vissuto e il proprio retroterra culturale. In altri termini, il primo autore cercherà in tutti i modi, attraverso il testo, di limitare o concentrare la nostra attenzione su ciò che egli ha visto o, peggio, su ciò che egli vuole farci credere di aver visto. Il secondo cercherà di “stimolare” la nostra fantasia aprendo e rincorrendo quei limiti che solo l’immaginazione può superare.

Nell’architettura, di fronte e dentro i suoi testi, gli edifici che decodifichiamo non solo negli usi spaziali, il dispositivo interpretativo pure si determina tra il mero significato letterale, se si vuole funzionale, ed i sensi che si affacciano alla nostra immaginazione.   

Pensiamo, a titolo di esempio, pur consapevoli della opinabilità della scelta, a un tempio greco del IV o III sec. a. C. Per magnifico che sia, esso é per noi rassicurante, nulla del suo spazio sarà motivo di turbamento. Sappiamo che, anche se il tempo le ha ormai cancellate, le sue parti mancanti erano nel posto in cui noi ci aspettiamo siano state e soprattutto nella forma di cui noi sappiamo essere state. Nulla ci impedisce di affermare che al centro della cella vi sia stata una statua delle fattezze della divinità a cui il tempio era dedicato, così come nulla ci potrà mai dissuadere dal fatto che, anche se ormai persa, tra due triglifi era inserita una metopa decorata e al disopra della trabeazione, sul prospetto principale, sicuramente si ergeva un frontone. Apparentemente esso non lascia nulla all’immaginazione che tenta di ricostruirlo e ricostruire i sensi che possedeva, ed anzi, insegnando in passato alle popolazioni greche, e nel corso della storia al mondo intero e alle generazioni successive cosa sia la perfezione, il bello, esso sembra imporre limiti alla nostra interpretazione, lasciando agire quello che Eco chiama “Autore modello”.

Trasferendoci qualche migliaio di chilometri verso est, dalla Grecia antica a Giza, riconosciamo tre edifici, simili tra loro ma di differenti grandezze, disposti in modo apparentemente caotico, privi di qualsiasi decorazione o ornamento e, contrariamente ad altri edifici dell’area, privi di qualsiasi iscrizione. Tutti e tre gli edifici rappresentano una figura geometrica elementare: la piramide. Enormi, queste costruzioni, da millenni hanno scatenato le più assurde teorie: su come siano state costruite, sul perché siano state costruite e perfino sul quando siano state costruite. Che le considerassimo semplicemente tombe o gli dessimo i più improbabili significati simbolici o ancestrali, le piramidi di Giza producono uno stato di incertezza che conduce finanche al turbamento, ed anche in questo caso è probabile che questo sia stato il fine che si erano proposti i loro costruttori. Quale è in questo caso il limite all’interno del quale si inserisce il significato dell’opera? In un cero senso potremmo dire che le piramidi non offrano limiti all’interpretazione e che il solo limite interpretativo é nell’ampiezza della nostra immaginazione. Nel tempo le piramidi hanno mantenuto il loro valore semantico, intrinseco alle loro forme e soprattutto alle loro dimensioni. Non ne abbiamo un’immediata coscienza, ne ricerchiamo parti o rapporti simbolici sia nel contesto morfologico del sito ma ci spingiamo anche nello spazio cosmico, sì che, per comprenderne il significato simbolico-formale non ci possiamo dare alcun limite.

Di fronte alle piramidi sembrerebbe che abbia ragione Rorty invece che Eco e, paradossalmente, l’assenza di limiti interpretativi cui si offrono, appare simile a quella di tanta architettura contemporanea che, rompendo ogni codice, sembra non offrirsi ad alcun senso e insieme ad infiniti sensi. E’ indicativo che in “interpretazione e sovrainterpretazione” Jonathan Culler mostri come Eco tenda a banalizzare le sovrainterpretazioni che, invece, sono quelle interpretazioni che aprono i limiti del testo interrogando il suo non-detto. In questo senso, anche il tempio greco del nostro esempio, offerto all’interpretazione di Robert Venturi, o meglio ancora di Frank Gehry, verrebbe totalmente decostruito, alla maniera del proprio cottage a Santa Monica, non offrendoci, certo, più alcuna testimonianza del mondo che rappresentava, ma facendolo sfuggire, proprio in una tale estrema interpretazione, alla banalizzazione di quelle di massa. 

Il linguaggio è cresciuto con la civiltà. Forme, strutture e temi sono mutati con i mutamenti culturali nella storia. La struttura semantica dello spazio architettonico, nelle sue infinite varianti o consolidate invarianti, ha accompagnato il cammino dell’uomo, dal tempio greco all’odierna architettura computerizzata, e proprio l’architettura, con le sue continue interpretazioni nella storia, sembra smentire l’assunto di Eco, sì che, se è vero che la fiaba dei tre porcellini non può che raccontare di tre porcellini, nessuno può impedire ad un nonno di raccontarla con 10, 100, infiniti porcellini, o immaginare un tempio greco con il frontone dipinto di blu, che, a pensarci, era di fatto proprio di tale colore! Ci misuriamo quindi con i nostri limiti interpretativi interni alla nostra storia e cultura, diversi da quelli passati e egualmente apparentemente fuori dalla portata del senso, ma è a tali limiti che bisogna forse guardare per non vedere nel banale, a sua volta non senso, se non per superarli almeno per raggiungerli ed aprire l’immaginazione.

Interpretazione e sovrainterpretazione dell’architettura

Nel libro di Umberto Eco “I limiti dell’interpretazione”, pubblicato nel 1990, viene ricordato di come sia fondamentale lo stretto rapporto tra il significato letterale del testo e le sue possibili interpretazioni. Il libro di Eco è un saggio di semiotica ed ermeneutica e la sua lettura è poco diffusa tra gli architetti, a nostro avviso colpevolmente, perché riteniamo che chiunque si occupi di struttura, forma o morfologia, sia essa inerente la scrittura o più semplicemente la pittura, non può essere ignorato da chi si occupa di forma, struttura e morfologia dell’architettura.
Temi e linguaggi sono legati da una stretta similitudine e soprattutto si sono influenzati nel loro procedere, crescere e trasformarsi nella storia. Ogni periodo storico è studiato in tutte le sue componenti culturali, in tutte le arti che lo contraddistinguono, in tutto ciò che in sostanza lo caratterizza e lo renda univocamente riconoscibile.  Il Rinascimento o l’illuminismo vengono, ad esempio, studiati ed analizzati, sia per ciò che attiene le arti figurative: pittura, scultura, architettura ma anche per la letteratura, la musica e  per il pensiero filosofico che ha influenzato ed influenza le culture successive.
Ciò vale per ogni periodo e per ogni movimento artistico storicizzato ma vale, o varrà,  per i movimenti artistici ed in genere culturali contemporanei.
Per Umberto Eco i limiti dell’interpretazione sono riassumibili in ciò che “non può essere” oppure rappresentare il significato di un testo, lasciando tra le possibili interpretazioni tutte quelle che posso essere considerate possibili a cominciare dalla quella meramente letterale.
Traslando questo principio alla critica architettonica i “limiti” diventano tutto ciò che lo spazio architettonico non può essere o divenire, fatto salvo ciò che è o potrebbe essere.
Un qualsiasi edifico, progettato per una  destinazione, potrà essere interpretato, secondo Eco,  come qualsiasi cosa, escluso ciò che contraddice la sua forma o funzione.
Un edificio residenziale non potrà mai essere un campo di calcio ma, di contro, una chiesa potrà assumere la funzione di una palestra, un centro conferenze o una sala per concerti. Molti sono gli esempi a riguardo nel riutilizzo temporaneo o permanente di architetture sia storiche che contemporanee.
In conseguenza di ciò, i limiti dell’architettura contemporanea, perdendo la riconoscibilità tra forma e funzione, tanto da disorientare il fruitore nell’uso o contemplazione dello spazio architettonico.
In un’altra raccolta di saggi “Interpretazione e sovrainterpretazione”, lo stesso Eco corre ai ripari: se le interpretazioni di un testo sono variabili e il limite è solo ciò che contraddice il testo letterale: il “non senso”, allora ogni interpretazione è legittima ed ha uguale dignità, compresa quella letterale. Nel nostro caso, diventerebbe legittimo trasformare ogni chiesa in una sala Bingo, ogni palestra in una biblioteca, ogni fabbrica in un supermercato e così via. Il rimedio, per Eco, è l’Autore Modello, quello che accompagna il lettore a scegliere, tra le possibili interpretazioni, solo quelle che appartengono alla sua sfera culturale o per dirla come Prestinenza Puglisi “[…] colui che organizza il testo al fine di sollecitare certe interpretazioni e non altre. Chi scrive, in altre parole, si immagina il proprio lettore e lo conduce per mano attraverso il racconto”.
In questa sede, ciò che noi teniamo a sottolineare, non è l’interpretazione di un testo o di uno spazio ma il suo “limite” come strumento di esclusione del “non senso”.
Il limite che ci spinge a discernere la buona dalla cattiva architettura, l’opera d’arte  dal “Kitsch” o peggio dalla banalità. Appare fuori di ogni dubbio, ad esempio, che un opera pittorica di Malevich, per astratta che sia (“Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918), per suprematista che sia è e sempre sarà, oltre che un opera d’arte, un quadro. Lo stesso dicasi per il museo Guggenheim di Bilbao di Frank O. Gehry o per la Casa sulla cascata di LL. Wright, il primo un museo e la seconda una villa, per citare gli esempi più famosi. Che sia una caverna, una capanna, un iglù o semplicemente villa Savoye, non sarà per noi difficile distinguerne una casa.
Lontano dai limiti del “non senso” questi manufatti rientrano appieno per volontà dai costruttori, dei proprietari o degli architetti che li hanno costruiti, nel significato semantico di un edificio residenziale; usi, costumi o periodi culturali che li hanno generati non ne hanno, nel tempo o nello spazio, modificato “il senso”, la riconoscibilità del loro valore formale.
Nell’era contemporanea, nell’ampliamento delle conoscenze e capacità tecnologiche, la ricerca costante del superamento dei “limiti” spinge sempre più la lettura del “senso” della forma a limiti altrimenti irraggiungibili, sia nella rappresentazione con l’introduzione dell’architettura cosiddetta digitale che nella realizzazione, attraverso l’utilizzo di materiali e tecniche innovative.
L’allontanamento del limite è condizione necessaria ma non sufficiente, per usare una metafora matematica, per la crescita culturale di una civiltà. La Grecia del IV secolo a. C. era di sicuro all’avanguardia nella ricerca del superamento dei propri limiti culturali e filosofici pur avendo i noti limiti tecnologici di una civiltà proto-rurare.
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Il dio egizio Rha era rappresentato nel XX sec. a. C. come un uomo dalla testa aquilina sormontata da un cerchio, venerato da una civiltà che non conosceva l’uso della ruota ma riuscendo a costruire  le più grandi opere architettoniche che l’umanità abbia mai realizzato sino al XVIII sec. d. C., mostrando così di non riconoscere nel cerchio il significato semantico della ruota pur dandone un valore ancestrale.
Il limite all’interno del quale si configura il significato semantico dell’opera o dello spazio, se da un lato rassicura il lettore o nel nostro caso il fruitore, ne riduce lo stimolo alla sua naturale crescita spirituale ed aspirazione intellettuale.
Ritornando allo lettura del testo,  nel leggere un articolo di cronaca, ci accorgiamo che questo vale per il solo significato letterale, un brano di un romanzo di Jules Verne, di contro, si pone evidentemente obbiettivi diversi. Nel primo caso l’autore, descrive un evento realmente accaduto, caratterizzandolo aggiungendo o sottraendo particolari descrittivi limitatamente alla sua capacità narrativa o correttezza professionale. Nel secondo, se si utilizza ad esempio il romanzo “Ventimila leghe sotto i mari”‘, l’autore descrive un mondo che egli stesso non ha mai visto e che si materializza nella mente del lettore in maniera diversa secondo il proprio vissuto o come si usa comunemente dire: retroterra culturale. In altri termini, il primo autore cercherà in tutti i modi, attraverso il testo, di limitare o concentrare la nostra attenzione a ciò che egli ha visto o peggio a ciò che egli vuole farci credere di aver visto. Il secondo cercherà di “stimolare” la nostra fantasia aprendo e rincorrendo quei limiti che solo l’immaginazione può superare.
Nella critica architettonica avviene lo stesso: al testo sostituiamo semplicemente lo spazio; per esercizio meramente accademico forniremo un esempio, pur consapevoli della suo opinabilità e che la mera scelta è limitata, è proprio il caso di dirlo, ad una semplificazione funzionale al nostro discorso.
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Un tempio greco del IV o III sec. a. C. per magnifico che sia, é per noi rassicurante, nulla del suo spazio sarà per noi motivo di turbamento. Sappiamo che, anche se il tempo le ha ormai cancellate, le sue parti mancanti erano nel posto in cui noi ci aspettiamo siano state  e soprattutto della forma di cui noi sappiamo essere state. Nulla ci impedisce di affermare che al centro della cella ci sia stata una statua delle fattezze della divinità a cui il tempio era dedicato, così come nulla ci potrà mai dissuadere dal fatto che, anche se ormai persa, tra due triglifi era inserita una metopa decorata ed al disopra della trabeazione, sul prospetto principale, sicuramente si erigeva un frontone.
L’architettura classica è per sua definizione un linguaggio, non lascia nulla all’immaginazione il suo scopo era semplicemente quello di insegnare alle popolazioni del mondo intero e a tutte le generazioni successive cosa é la perfezione, cosa è il bello. I limiti non li supera, l’impone.
Trasferendoci qualche migliaio di chilometri verso est, dalla Grecia antica a Giza, riconosciamo tre edifici, simili tra loro ma di differenti grandezze, disposti in modo apparentemente caotico, privi di qualsiasi decorazione o ornamento e, contrariamente ad altri edifici dell’area, privi di qualsiasi iscrizione. Tutti e tre gli edifici rappresentano una figura geometrica elementare: la piramide. Enormi, queste costruzioni, da millenni hanno scatenato le più assurde teorie: su come siano state costruite, sul perché siano state costruite e perfino sul quando siano state costruite.
Che le considerassimo semplicemente tombe o gli dessimo i più improbabili significati simbolici o ancestrali, le piramidi di Giza ci producono uno stato di sicuro turbamento, ed è questo, crediamo, sia stato il fine che si erano proposti i loro costruttori. Quale è in questo caso il limite all’interno del quale si inserisce il significato semantico dell’opera? La risposta è nel nostro vissuto, nel nostro retroterra culturale, il solo limite a quel linguaggio é la nostra immaginazione. Nel tempo le piramidi hanno mantenuto il loro significato semantico, intrinseco nelle loro forme e soprattutto nelle loro dimensioni. Non ne abbiamo un’immediata coscienza, ne ricerchiamo parti o rapporti simbolici sia nel contesto morfologico del sito ma ci spingiamo anche nello spazio cosmico. Per comprenderne il significato simbolico formale non ci possiamo dare alcun limite.
Tali osservazioni valgono per ogni opera, sia essa letteraria, artistica o architettonica e sono applicabili ad ogni periodo storico culturale.
Il linguaggio è cresciuto con la civiltà. Forme, strutture e temi si sono evoluti all’evolversi delle culture nella storia. La struttura semantica dello spazio architettonico, nelle sue infinite varianti o consolidate invarianti, ha accompagnato il cammino dell’uomo, il ruolo svolto da quest’ultimo è stato quello di individuare per poi cercare di superare quei limiti all’interno dei quali si configurava il pensiero immanente, la materia, lo spazio, il “senso”, al di fuori fluttuava il trascendente, l’imformale, il “non senso”, l’immaginazione.
Anche noi, oggi, ci misuriamo con i nostri limiti, diversi da quelli passati ma egualmente apparentemente irraggiungibili. Compito del ricercatore non è superarli ma tentare sempre di raggiungerli.