Mi reputo essere tra i primi a cogliere l’importanza e le potenzialità della diffusione dei Social Network. Un primato che oggi non rivendico con orgoglio. Avrei dovuto capire, da subito, il pericolo che questi costituivano nello sviluppo di una generazione privata degli strumenti di crescita cognitiva e deviata nella costruzione di modelli di aggregazione sociale.
Mi sono lasciato distrarre dalla ricerca e analisi di strutture e sistemi di sviluppo antropico basati su principi insediativi, morfologie sociali che trovavano nello spazio fisico, reale, materiale, il campo in cui si inveravano le relazioni umane. Anni persi.
Mentre costruivo i miei modelli basandomi sullo studio antropologico dello spazio sociale, le relazioni umane trascendevano. I luoghi fisici, immanenti, perdevano e continuano sempre più a perdere la loro capacità intrinseca di condizionamento della psiche. Che siano spazi antropici o naturali non hanno più nessuna capacità di condizionamento. Il “genius loci”, lo spirito del luogo, è svanito come tutte le figure ed immagini che ad esso richiamano.
Viviamo, perché tutti ne subiamo il condizionamento, nello spazio immanente dei Social Network, dei servizi di messaggistica, nei gruppi di Chat. Ci nutriamo di “Like”, di visualizzazioni, di condivisioni, di retwitt, di commenti, di emotion. Comunichiamo attraverso di essi, socializziamo attraverso essi, giudichiamo attraverso essi, esprimiamo i nostri sentimenti attraverso essi.
Milioni di anni di evoluzione, nei quali il linguaggio del nostro corpo si è modificato: il sorriso, lo sguardo, la risata, il pianto, la rabbia, la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio, la carezza. Figure semantiche rappresentative del nostro “io”. Relazioni che si costruivano attraverso la capacità di comunicare con il nostro corpo, la capacità di leggere i messaggi trasmessi dagli altri soggetti. Una relazione era lo scambio non codificato di informazioni, emozioni, lette dagli strumenti cognitivi dell’individuo che ne percepiva sostanza, sfumature, essenza. Lo sviluppo cognitivo dell’individuo era condizione necessaria alla lettura dell’ambiente e delle forme di comunicazione che in esso avvenivano.
Con la parola, il diffondersi del linguaggio, il dare un significato semantico alla costruzione fonetica, l’uomo non modificò lo strumento di lettura delle iterazioni sociali. La verità, la colpa, il comportamento, erano accertati dallo sguardo, e non dalla costruzione del pensiero trasmesso attraverso la parola.
Anche la “retorica” necessitava di spazi simbolici (palco, tribuna, altare, pulpito) ed era sempre accompagnata da gesti ed espressioni del corpo. Lo stesso Cristo alzò le braccia invocando il Padre e, benedicendo gli apostoli, ascese al cielo (Luca 24)
“[50]Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
[51]Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. “
Solo con l’invenzione della scrittura, l’uomo si dissocia e si astrae dalla contemporaneità del significato semantico del linguaggio fonetico e del proprio corpo. Per millenni, però, la scrittura è l’impronta del gesto che resta permanente nello spazio; materica, fisica. Cosi come è permanente per millenni l’impronta delle proprie mani su una roccia o la rappresentazione simbolica di gesti compiuti.
L’arte stessa nasce come proiezione spaziale e figurativa della vita conscia o inconscia del proprio autore.
E’ una rappresentazione, una trasfigurazione, un’astrazione di un mondo fisico reale. E’ materia!
La musica, la poesia, il teatro, sono proiezioni simboliche di un mondo reale, uno stato psichico, condizionato o condizionante; nulla è lasciato al caso. La prossemica, spazio fisico in cui la psiche esercita il suo controllo, cedendo e concedendo, negando e difendendo, le iterazioni con gli altri individui, è anch’esso uno spazio reale. I gesti, i comportamenti compiuti in questo luogo sono riconoscibili e riconosciuti, espressioni di emozioni, stati d’animo cristallizzati ma non codificati dalla crescita della cognizione dell’individuo, ricchi di variabili semantiche, spesso contraddittorie dov’è il “no” vuol dire “si”, il “si” vuol dire “no”, il “forse” vuol dire “mai”. il “mai” vuol dire “adesso”. Una moltitudine di combinazioni, invarianti, variabili, allusioni, riferimenti. Vivere in questo mondo, in questo spazio complesso, mutabile, come il comportamento, condizionabile come la coscienza, ha permesso la costruzione della personalità dell’individuo, della struttura sociale in cui questa si manifesta, ne permette il riconoscimento dei limiti, l’identificazione del ruolo da occupare nel quale esprimere appieno il proprio potenziale. Questo spazio oggi non esiste più. Non è mutato, è altro. Più precisamente non è più utilizzato. La costruzione di relazioni umane avviene altrove, avvero l’individuo cerca di trasportale altrove in un luogo che crede e spera di controllare, ma non è cosi.
Un prigioniero conosce bene la sua cella, soprattutto se è detenuto da molto tempo. Ne conosce ogni angolo, ogni parete, ogni oggetto in essa contenuto, nel tempo trascorso ha imparato a riconoscere, conservandone memoria, anche gli odori dei singoli elementi che la compongono, ne ha assunto esso stesso l’odore e talvolta il colore. Un prigioniero ricostruisce il suo spazio con la materia che lo circonda: carezza le pareti, le annusa e fa lo stesso creando un legame con ogni altro elemento materiale presente in quello spazio: tavolo, sedia, letto, coperte. Un individuo con problemi psichici fa di più: trasforma quello spazio nel suo subconscio ed allora tenta disperatamente di modificarlo radicalmente, cercando di demolirlo talvolta, altre trasformandone gli elementi in narrazione del proprio vissuto incidendo le pareti con disegni, segni e simboli spesso irriconoscibili se non a se stesso.
L’immagine che ne viene è quella dell’individuo che cerca di ricostruire comunque una relazione con l’ambiente che lo circonda. Questa esigenza è ancestrale. Un archetipo precostituito nella memoria genetica dell’individuo. I social ripropongono questo modello presentato come rifugio ma sono nient’altro che prigioni. L’approccio non è mai traumatico, il condizionamento è, invece, progressivo.
Lentamente l’individuo inizia la scoperta del nuovo spazio, apparentemente lo controlla, gli vengono offerte delle scelte tra una moltitudine di variabili. La scelta di opzioni rassicura l’”IO”: le decisioni fatte consapevoli o inconsapevoli offrono la possibilità di creare un immagine proiettata della propria personalità. In alcuni prevale il narcisismo (esaltando il proprio EGO), in altri “la maschera” (esaltando il propio SUPEREGO). Entrambi hanno avuto, o meglio, hanno creduto di scegliere chi essere.
La detenzione in una prigione ci da il tempo di riflettere su noi stessi, sul perché siamo finiti li, sui nostri sbagli, sulla vita che abbiamo trascorso e su quella che abbiamo perso. Qualunque sia la nostra visione del mondo, la nostra interpretazione dei fatti avvenuti, la costrizione ci induce alla lettura introspettiva della nostra personalità. Un rifugio è altro. Lo costruiamo con la consapevolezza delle nostre paure, delle nostre debolezze, della capacità che abbiamo di affrontarle e di viverle. La costruzione di un luogo di auto-costrizione è quanto di più lontano possa esserci dalla volontà di confrontarsi con se stesso, le proprie paure, i propri mostri.
I Social Network permettono, offrendo l’illusione di uno spazio “altro”, la costruzione di nuove e soprattutto diverse relazioni, usando strumenti, questa volta codificati, di iterazione sociale.
Gli approcci sono disinibiti, i dialoghi impersonali. Il rifugio offre l’anonimato, la maschera, l’esaltazione dell’ego. Il rifugio protegge e consente all’individuo di agire, nel costruendo nuovo spazio prossemico. Il dialoghi informali tra sconosciuti ne sono testimonianza. Chiedere “chi sei?” ad uno sconosciuto è dargli la possibilità di fare una narrazione di ciò che egli avrebbe voluto essere o peggio vorrebbe che tu pensassi sia. Ciò che sai di lui, infatti, è solo ciò che egli ha detto di essere, il perché e cosa egli sia veramente non ci è dato sapere con gli strumenti che in milioni di anni abbiamo costruito. Una foto, un avatar, una descrizione rappresentativa della propria personalità (sesso, genere, città natale, nickname, studi fatti) sono le uniche informazioni di cui disponiamo e possono essere tutte false.
Se è vero che pensiamo di essere nel rifugio che abbiamo noi stessi costruito è anche vero che interagiamo con persone che affacciandosi lo fanno coperti da una maschera. Questo nuovo spazio, questo nuovo luogo è privo di elementi riconoscibili ai nostri sensi, non ci sono incisioni, non c’è odore e soprattutto non c’è luce. Al buio e privi di sensi di riconoscimento cognitivo iniziamo nuove relazioni, la coltiviamo, le preferiamo a quelle tradizionali appartenenti allo spazio prossimale reale. Il rifugio ci conquista, crediamo, anzi siamo convinti, di averne il pieno controllo.
Nella comunicazione non verbale sui Social Network prevale il “like”. Un tempo il “pollice verso” era prerogativa dell’imperatore, decideva vita o morte, cosi come il braccio teso prima dell’incontro durante il saluto, per alcuni ultimo, dei gladiatori “Ave imperator, morituri te salutant”, rappresentava la consapevolezza della propria sorte. Quale uomo sano di mente vorrebbe entrare in una arena con la consapevolezza di essere giudicato, nella ricerca di ottenere da infiniti imperatori l’approvazione del proprio pensiero, della propria immagine, del proprio gesto?
Crediamo di poter scegliere i nostri interlocutori, il modo con cui relazionarci ad assi. Possiamo fare, dire ogni cosa ci passi per la mente. Abbiamo raggiunto il Nirvana. Ma non è cosi!
Abbiamo perso, semmai l’avessimo avuta, la cognizione di come si costruiscono le relazioni umane.
I Social Network possono, infatti, illuderci di vivere una vita e di usare diversi modi di relazionarci con gli altri, ma non ci rendono scintoisti, non ci elevano lo spirito, non ci trascendono, semplicemente ci regrediscono. Regrediamo la capacità cognitiva della costruzione delle relazioni sociali. basate su ciò che vorremmo che gli altri pensassero fossimo. In maniera bilaterale le relazioni diventano irrilevanti.
Come irrilevanti sono i comportamenti che assumiamo nella vita reale in attesa di rifugiarci nel nostro mondo pre-cognitivo.
Non è un caso che ogni giorno vengono riscontrate, anche in soggetti apparentemente lontani da condizioni sociali condizionanti, patologie psichiche atipiche se non di traumi importanti. Ecco quindi aumentare sempre più soggetti istrionici, afefoboci e soprattutto parafiliaci. Il sesso infatti, nella sua accezione deviante e patologica, e non di genere a cui riconosciamo piena legittimità, rappresenta il lato oscuro con cui non riusciamo più a rapportarci. La promiscuità sessuale, così come l’abuso sessuale, la violenza sessuale, la pedofilia, è praticata spesso senza la consapevolezza dell’atto in se. Viene talvolta addirittura rivendicata: non è l’atto che provoca piacere ma la sua riproposizione nello spazio sociale “parallelo”: il Social. E’ questo spazio parallelo, appunto, che ci rende bilaterali, dissociati, borderline. Sdoppiamo la nostra personalità, il nostro io, siamo costretti a farlo poiché viviamo intensamente due diverse vite con modelli, strumenti e fini differenziati. Impossibile da gestire, imprevedibili le conseguenze. Ogni giorno lentamente perdiamo di vista il lavoro immenso che ci hanno trasmesso i nostri antenati attraverso migliaia di anni di evoluzione. Non ci riferiamo ai modelli sociali, alle regole di convivenza, alle leggi morali ma alla capacità di crearle, di trasformarle, di infrangerle consapevolmente alle conseguenze che questo implica.
Come ogni esploratore del proprio tempo, ognuno di noi ha il diritto di percorrere qualsiasi sentiero, impervio che sia, ha il diritto di scegliere dove fermarsi, dove dirigersi. Ha il diritto di decidere di continuare la propria strada o di tornare indietro. Anche io come tutti noi ho percorso sentieri oscuri, ho costruito rifugi e sono stato imprigionato. Ma ovunque sia stato, ovunque abbia vissuto ho sempre creduto che le vie di fuga debbano essere spazi aperti, porte che si aprono, nuovi viaggi da compiere, difficoltà da incontrare con la consapevolezza che le relazioni umane sono e saranno sempre vissute nella prossimità del mio spazio reale. Qualunque sia la prigione che un giorno mi costruirò ne cercherò sempre la via di fuga come mi sento sussurrare dai nostri antenati.

