La prossemica ai tempi dei Social

Mi reputo essere tra i primi a cogliere l’importanza e le potenzialità della diffusione dei Social Network. Un primato che oggi non rivendico con orgoglio. Avrei dovuto capire, da subito, il pericolo che questi costituivano nello sviluppo di una generazione privata degli strumenti di crescita cognitiva e deviata nella costruzione di modelli di aggregazione sociale.

Mi sono lasciato distrarre dalla ricerca e analisi di strutture e sistemi di sviluppo antropico basati su principi insediativi, morfologie sociali che trovavano nello spazio fisico, reale, materiale, il campo in cui si inveravano le relazioni umane. Anni persi.

Mentre costruivo i miei modelli basandomi sullo studio antropologico dello spazio sociale, le relazioni umane trascendevano. I luoghi fisici, immanenti, perdevano e continuano sempre più a perdere la loro capacità intrinseca di condizionamento della psiche. Che siano spazi antropici o naturali non hanno più nessuna capacità di condizionamento. Il “genius loci”, lo spirito del luogo, è svanito come tutte le figure ed immagini che ad esso richiamano.

Viviamo, perché tutti ne subiamo il condizionamento, nello spazio immanente dei Social Network, dei servizi di messaggistica, nei gruppi di Chat. Ci nutriamo di “Like”, di visualizzazioni, di condivisioni, di retwitt, di commenti, di emotion. Comunichiamo attraverso di essi, socializziamo attraverso essi, giudichiamo attraverso essi, esprimiamo i nostri sentimenti attraverso essi.

Milioni di anni di evoluzione, nei quali il linguaggio del nostro corpo si è modificato: il sorriso, lo sguardo, la risata, il pianto, la rabbia, la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio, la carezza. Figure semantiche rappresentative del nostro “io”. Relazioni che si costruivano attraverso la capacità di comunicare con il nostro corpo, la capacità di leggere i messaggi trasmessi dagli altri soggetti. Una relazione era lo scambio non codificato di informazioni, emozioni, lette dagli strumenti cognitivi dell’individuo che ne percepiva sostanza, sfumature, essenza. Lo sviluppo cognitivo dell’individuo era condizione necessaria alla lettura dell’ambiente e delle forme di comunicazione che in esso avvenivano.

Con la parola, il diffondersi del linguaggio, il dare un significato semantico alla costruzione fonetica, l’uomo non modificò lo strumento di lettura delle iterazioni sociali. La verità, la colpa, il comportamento, erano accertati dallo sguardo, e non dalla costruzione del pensiero trasmesso attraverso la parola.

Anche la “retorica” necessitava di spazi simbolici (palco, tribuna, altare, pulpito) ed era sempre accompagnata da gesti ed espressioni del corpo. Lo stesso Cristo alzò le braccia invocando il Padre e, benedicendo gli apostoli, ascese al cielo (Luca 24)

[50]Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 

[51]Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 

Solo con l’invenzione della scrittura, l’uomo si dissocia e si astrae dalla contemporaneità del significato semantico del linguaggio fonetico e del proprio corpo. Per millenni, però, la scrittura è l’impronta del gesto che resta permanente nello spazio; materica, fisica. Cosi come è permanente per millenni l’impronta delle proprie mani su una roccia o la rappresentazione simbolica di gesti compiuti.

L’arte stessa nasce come proiezione spaziale e figurativa della vita conscia o inconscia del proprio autore.

E’ una rappresentazione, una trasfigurazione, un’astrazione di un mondo fisico reale. E’ materia!

La musica, la poesia, il teatro, sono proiezioni simboliche di un mondo reale, uno stato psichico, condizionato o condizionante; nulla è lasciato al caso. La prossemica, spazio fisico in cui la psiche esercita il suo controllo, cedendo e concedendo, negando e difendendo, le iterazioni con gli altri individui, è anch’esso uno spazio reale. I gesti, i comportamenti compiuti in questo luogo sono riconoscibili e riconosciuti, espressioni di emozioni, stati d’animo cristallizzati ma non codificati dalla crescita della cognizione dell’individuo, ricchi di variabili semantiche, spesso contraddittorie dov’è il “no” vuol dire “si”, il “si” vuol dire “no”, il “forse” vuol dire “mai”. il “mai” vuol dire “adesso”. Una moltitudine di combinazioni, invarianti, variabili, allusioni, riferimenti. Vivere in questo mondo, in questo spazio complesso, mutabile,  come il comportamento, condizionabile come la coscienza, ha permesso la costruzione della personalità dell’individuo, della struttura sociale in cui questa si manifesta, ne permette il riconoscimento dei limiti, l’identificazione del ruolo da occupare nel quale esprimere appieno il proprio potenziale. Questo spazio oggi non esiste più. Non è mutato, è altro. Più precisamente non è più utilizzato. La costruzione di relazioni umane avviene altrove, avvero l’individuo cerca di trasportale altrove in un luogo che crede e spera di controllare, ma non è cosi.

Un prigioniero conosce bene la sua cella, soprattutto se è detenuto da molto tempo. Ne conosce ogni angolo, ogni parete, ogni oggetto in essa contenuto, nel tempo trascorso ha imparato a riconoscere, conservandone memoria, anche gli odori dei singoli elementi che la compongono, ne ha assunto esso stesso l’odore e talvolta il colore. Un prigioniero ricostruisce il suo spazio con la materia che lo circonda: carezza le pareti, le annusa e fa lo stesso creando un legame con ogni altro elemento materiale presente in quello spazio: tavolo, sedia, letto, coperte. Un individuo con problemi psichici fa di più: trasforma quello spazio nel suo subconscio ed allora tenta disperatamente di modificarlo radicalmente, cercando di demolirlo talvolta, altre trasformandone gli elementi in narrazione del proprio vissuto incidendo le pareti con disegni, segni e simboli spesso irriconoscibili se non a se stesso.

L’immagine che ne viene è quella dell’individuo che cerca di ricostruire comunque una relazione con l’ambiente che lo circonda. Questa esigenza è ancestrale. Un archetipo precostituito nella memoria genetica dell’individuo. I social ripropongono questo modello presentato come rifugio ma sono nient’altro che prigioni. L’approccio non è mai traumatico, il condizionamento è, invece, progressivo.

Lentamente l’individuo inizia la scoperta del nuovo spazio, apparentemente lo controlla, gli vengono offerte delle scelte tra una moltitudine di variabili. La scelta di opzioni rassicura l’”IO”: le decisioni fatte consapevoli o inconsapevoli offrono la possibilità di creare un immagine proiettata della propria personalità. In alcuni prevale il narcisismo (esaltando il proprio EGO), in altri “la maschera” (esaltando il propio SUPEREGO). Entrambi hanno avuto, o meglio, hanno creduto di scegliere chi essere.

La detenzione in una prigione ci da il tempo di riflettere su noi stessi, sul perché siamo finiti li, sui nostri sbagli, sulla vita che abbiamo trascorso e su quella che abbiamo perso. Qualunque sia la nostra visione del mondo, la nostra interpretazione dei fatti avvenuti, la costrizione ci induce alla lettura introspettiva della nostra personalità. Un rifugio è altro. Lo costruiamo con la consapevolezza delle nostre paure, delle nostre debolezze, della capacità che abbiamo di affrontarle e di viverle. La costruzione di un luogo di auto-costrizione è quanto di più lontano possa esserci dalla volontà di confrontarsi con se stesso, le proprie paure, i propri mostri.

I Social Network permettono, offrendo l’illusione di uno spazio “altro”, la costruzione di nuove e soprattutto diverse relazioni, usando strumenti, questa volta codificati, di iterazione sociale.

Gli approcci sono disinibiti, i dialoghi impersonali. Il rifugio offre l’anonimato, la maschera, l’esaltazione dell’ego. Il rifugio protegge e consente all’individuo di agire, nel costruendo nuovo spazio prossemico. Il dialoghi informali tra sconosciuti ne sono testimonianza. Chiedere “chi sei?” ad uno sconosciuto è dargli la possibilità di fare una narrazione di ciò che egli avrebbe voluto essere o peggio vorrebbe che tu pensassi sia. Ciò che sai di lui, infatti, è solo ciò che egli ha detto di essere, il perché e cosa egli sia veramente non ci è dato sapere con gli strumenti che in milioni di anni abbiamo costruito. Una foto, un avatar, una descrizione rappresentativa della propria personalità (sesso, genere, città natale, nickname, studi fatti) sono le uniche informazioni di cui disponiamo e possono essere tutte false.

Se è vero che pensiamo di essere nel rifugio che abbiamo noi stessi costruito è anche vero che interagiamo con persone che affacciandosi lo fanno coperti da una maschera. Questo nuovo spazio, questo nuovo luogo è privo di elementi riconoscibili ai nostri sensi, non ci sono incisioni, non c’è odore e soprattutto non c’è luce. Al buio e privi di sensi di riconoscimento cognitivo iniziamo nuove relazioni, la coltiviamo, le preferiamo a quelle tradizionali appartenenti allo spazio prossimale reale. Il rifugio ci conquista, crediamo, anzi siamo convinti, di averne il pieno controllo.

Nella comunicazione non verbale sui Social Network prevale il “like”. Un tempo il “pollice verso” era prerogativa dell’imperatore, decideva vita o morte, cosi come il braccio teso prima dell’incontro durante il saluto, per alcuni ultimo, dei gladiatori “Ave imperator, morituri te salutant”, rappresentava la consapevolezza della propria sorte. Quale uomo sano di mente vorrebbe entrare in una arena con la consapevolezza di essere giudicato, nella ricerca di ottenere da infiniti imperatori l’approvazione del proprio pensiero, della propria immagine, del proprio gesto?

Crediamo di poter scegliere i nostri interlocutori, il modo con cui relazionarci ad assi. Possiamo fare, dire ogni cosa ci passi per la mente. Abbiamo raggiunto il Nirvana. Ma non è cosi!

Abbiamo perso, semmai l’avessimo avuta, la cognizione di come si costruiscono le relazioni umane.

I Social Network possono, infatti, illuderci di vivere una vita e di usare diversi modi di relazionarci con gli altri, ma non ci rendono scintoisti, non ci elevano lo spirito, non ci trascendono, semplicemente ci regrediscono. Regrediamo la capacità cognitiva della costruzione delle relazioni sociali. basate su ciò che vorremmo che gli altri pensassero fossimo. In maniera bilaterale le relazioni diventano irrilevanti.

Come irrilevanti sono i comportamenti che assumiamo nella vita reale in attesa di rifugiarci nel nostro mondo pre-cognitivo.

Non è un caso che ogni giorno vengono riscontrate, anche in soggetti apparentemente lontani da condizioni sociali condizionanti, patologie psichiche atipiche se non di traumi importanti. Ecco quindi aumentare sempre più soggetti istrionici, afefoboci e soprattutto parafiliaci. Il sesso infatti, nella sua accezione deviante e patologica, e non di genere a cui riconosciamo piena legittimità, rappresenta il lato oscuro con cui non riusciamo più a rapportarci. La promiscuità sessuale, così come l’abuso sessuale, la violenza sessuale, la pedofilia, è praticata spesso senza la consapevolezza dell’atto in se. Viene talvolta addirittura rivendicata: non è l’atto che provoca piacere ma la sua riproposizione nello spazio sociale “parallelo”: il Social. E’ questo spazio parallelo, appunto, che ci rende bilaterali, dissociati, borderline. Sdoppiamo la nostra personalità, il nostro io, siamo costretti a farlo poiché viviamo intensamente due diverse vite con modelli, strumenti e fini differenziati. Impossibile da gestire, imprevedibili le conseguenze. Ogni giorno lentamente perdiamo di vista il lavoro immenso che ci hanno trasmesso i nostri antenati attraverso migliaia di anni di evoluzione. Non ci riferiamo ai modelli sociali, alle regole di convivenza, alle leggi morali ma alla capacità di crearle, di trasformarle, di infrangerle consapevolmente alle conseguenze che questo implica.

Come ogni esploratore del proprio tempo, ognuno di noi ha il diritto di percorrere qualsiasi sentiero, impervio che sia, ha il diritto di scegliere dove fermarsi, dove dirigersi. Ha il diritto di decidere di continuare la propria strada o di tornare indietro. Anche io come tutti noi ho percorso sentieri oscuri, ho costruito rifugi e sono stato imprigionato. Ma ovunque sia stato, ovunque abbia vissuto ho sempre creduto che le vie di fuga debbano essere spazi aperti, porte che si aprono, nuovi viaggi da compiere, difficoltà da incontrare con la consapevolezza che le relazioni umane sono e saranno sempre vissute nella prossimità del mio spazio reale. Qualunque sia la prigione che un giorno mi costruirò ne cercherò sempre la via di fuga come mi sento sussurrare dai nostri antenati.

Dall’agorà al social network

Pestum

Bruno Zevi scriveva, ormai nel lontano 1948, in Saper vedere l’architettura: “Che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi o da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la scena dove la nostra vita si svolge.”[1]

I testi di Zevi sono stati il fondamento della cultura architettonica di almeno tre generazioni di architetti italiani. Che l’architettura sia lo spazio dove si inverano le relazioni umane è diventato l’assioma euclideo di tutte le correnti culturali che dal dopoguerra ad oggi si sono formate ed hanno accompagnato il cammino degli architetti e la lettura della critica architettonica.

La “verità evidente” euclidea[2], non lontana dalle citazioni delpostmoderno, trasferì in quegli anni dalla materia allo spazio il valore architettonico: spazio fisico carico di valori formali, simbolici, storici. Dagli anni cinquanta e per tutto il XX Sec., su binari differenti, la cultura architettonica percorse il suo viaggio nel tempo. La critica, ugualmente, rileggeva e soprattutto riscriveva il percorso dell’uomo nella storia. Il focolare domestico per la casa, l’agorà per la città erano il centro dello spazio cosmico attorno al quale nascevano, si radicavano le strutture culturali e sociali della civiltà.

Nella città eterna, Roma, tra la meta del I sec. a.C. e il I sec. d.C., nell’arco di appena 150 anni vennero costruiti quattro fori imperiali, tutti nello stesso luogo. Il foro cambiò forma, orientamento ma conservò tutti i valori simbolici e funzionali originari. L’agorà per i greci, il foro per i romani, la piazza del mercato dal medioevo in poi, a scala urbana, rappresentarono il luogo, lo spazio dove si costruirono le relazioni umane, dove si scambiavano le merci, le idee, dove si caratterizzava l’identità culturale di una civiltà. Lo spazio fisico fu e restò il protagonista dell’architettura.

La domanda che ci poniamo è se anche oggi è così, o meglio, se anche oggi è solo così come Zevi ci ha insegnato. Come sempre accade, la pittura, l’avanguardia delle arti figurative del novecento, fu la prima a leggere einterpretare i cambiamenti della società, svincolata, a differenza dell’architettura, dalla necessità di soddisfare esigenze plurime ma materiali. Tra gli anni ’30 e ’60 la forma riconoscibile della realtà si astrasse fino a scomparire dalla tela (Piet Mondrian, Kazimir Malevich). Negli anni ’50 e ‘60 la materia diventò protagonista, caricata del significato simbolico del gesto (Alberto Burri, Jackson Pollock). All’irrompere dei media nella vita quotidiana, la Pop Art ne rappresentò limiti e opportunità (Roy Lichtenstein, Andy Warhol). L’architettura, nel contempo e in tutto il suo evolversi nella storia, si era caratterizzata nello spazio; spazio mutevole, come mutevoli furono i comportamenti umani. Uno spazio fisico, immanente, ricco di significati, di molteplici letture, di infinite varianti. Nella pittura, però, avvenne ciò che nell’architettura era in qual periodo tecnicamente impossibile: la forma, il colore e finanche la materia scomparvero, restò solo la tela. Lucio Fontana attraversò la tela e con un gesto creò, nei primi anni ’60, il suo primo “Concetto spaziale”. Gli architetti non lo seguirono, almeno per il momento. Negli anni ’70, Christo e Jeanne-Claude prevaricarono i confini: lo spazio architettonico era statico, almeno nel suo complesso, e venne impacchettato con corde e teli di plastica. Sottratti alla vista, i monumenti, i palazzi, le chiese e i ponti abdicarono all’arte. La ricerca architettonica tra gli anni ’60 e ’70 era distratta dal soddisfacimento di bisogni contingenti sopraggiunti: la città, la casa, i luoghi dove si inveravano le relazioni umane andavano reinventati, adeguati, adattati, ristrutturati e, come era iniziato ad accadere nelle grandi e piccole città europee, salvaguardati e tutelati.

Era giunto il momento di muoversi. questa volta sul serio. Piano e Rogers, immaginarono, almeno nel primo progetto, che il loro edificio, il Centro Pompidou di Parigi, si potesse muovere: l’altezza dei piani sarebbe potuta variare al variare delle necessità. La tecnologia adesso lo permetteva, il budget no.

L’arte continuò, inesorabile, la sua corsa in avanti: scomparve lo spazio, l’arte diventò “Concettuale”. Lo spazio restò momentaneamente il luogo dove si compivano i gesti (“Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua” di Gino De Dominicis), il luogo dove artisti come Joseph Beuys posero l’umanità di fronte ai propri orrori. Senza rendersene conto, gli artisti, entrando nel tubo catodico, si trasferirono in un nuovo spazio. I media si trasformarono da mezzo di conoscenza a fine della coscienza collettiva. Beuys riprese le sue performance, Studio Azzurro, collettivo di video-artisti, ne amplificò fino all’eccesso le potenzialità. Lo spazio architettonico era ormai, seppure in ritardo, in moto. L’architettura diventò de-costruita, fluida, dinamica, non è un caso che una delle personalità emergenti degli anni ’90 che si pose tra le archistar indiscusse del XXI secolo fu Zaha Hadid. Non è un caso perché, anche se naturalizzata britannica, il suo retroterra culturale era lontano dalla storia, lontano dal peso della tradizione. Laureata, prima in matematica, la scienza astratta per eccellenza, approdò all’architettura solo dopo la collaborazione con Rem Koolhaas e Elia Zenghelis (OMA): i maestri non si seguono, si superano.

L’architettura è ormai fluida, oseremmo dire liquida e persino gassosa, come nella “Nuvola” di Massimiliano Fuksas. Siamo arrivati al limite dello spazio fisico. Dopo oltre mezzo secolo dal taglio della tela di Lucio Fontana, che segnò il salto della pittura dalla materia allo spazio, siamo arrivati all’architettura che ha modificato la natura del suo spazio fisico. Abbiamo, però, perso di vista in questo viaggio “la scena dove la nostra vita si svolge”. La scena, appunto. Zevi, infatti, nel suo scritto rimandava ad una scena, un ambiente. Rileggendo, ci piace immaginare che nella sua definizione egli abbia, in nuce, previsto ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte: nelle relazioni umane lo spazio, nella sua accezione fisica, è scomparso! In un futuro non remoto gli architetti si troveranno a misurarsi con i nuovi luoghi dell’architettura, scene che, per l’appunto, oltrepassano i confini dello spazio fisico diventando immateriali.

Torniamo per un attimo indietro di qualche millennio. I più antichi manufatti dell’umanità sono costituiti da pietre di selce lavorate in modo da essere rese taglienti, avevano lo scopo di poter aumentare nell’ominide la sua capacità offensiva e difensiva. Tra i primati, gli antenati dell’uomo erano quelli capaci più degli altri di difendersi, di uccidere. Riconosciuta la sua straordinaria capacità di realizzare oggetti, l’uomo iniziò a produrre utensili finalizzati al soddi-sfacimento di bisogni diversi, quali la conservazione dei cibi, il trasporto dell’acqua, la decorazione per il proprio corpo, finanche la realizzazione di oggetti rappresentanti valori assoluti la cui finalità assumeva caratteri sacri ed ancestrali. Anche se creati dall’uomo questi oggetti assumevano, nelle loro fattezze, la sacralità degli idei. La manualità aveva dato vita alla coscienza della società umana.

Durante la seconda guerra mondiale, le necessità belliche avevano spinto gli scienziati tedeschi a immaginare una bomba che potesse raggiungere, lanciata dalle coste continentali, le città inglesi senza che fosse necessario trasportarla per via aerea. La contraerea britannica aveva sviluppato, infatti, un sistema di difesa capace di prevenire e reagire ai raid aerei: si era dotata dei radar. Una bomba di diverse tonnellate di esplosivo dotata di autonomo sistema di lancio e volo prendeva il nome di V2: il primo missile. Era nata l’era della propulsione a reazione. Oggi questa invenzione, nata per uccidere, ci consente di viaggiare in aereo tra un continente e l’altro consentendoci di portare nello spazio i satelliti meteorologici e quelli delle comunicazioni sino ad far atterrare le prime sonde su Marte.

Durante la guerra fredda, negli anni ’60, la difesa americana iniziò a sviluppare una tecnologia capace di mantenere intatti i collegamenti tra le basi militari che eventualmente fossero sopravvissute ad una catastrofe nucleare. Alla fine degli anni ottanta questo sistema, scongiurato il pericolo, venne ceduto all’industria civile: la difesa militare americana, senza probabilmente rendersene conto, aveva donato all’umanità la più grande invenzione destinata a trasformare la vita di tutti i giorni. Questa tecnologia prese il nome di Internet.

Come spesso è capitato nella storia dell’uomo, lo sviluppo di tecnologie nate per soddisfare il più primitivo bisogno di offesa e difesa dell’uomo contro l’uomo è finito per diventare esso stesso strumento di relazione tra individui, società e civiltà diverse.

“Every tool is a weapon if you hold it right” (Ogni strumento è un’arma se si tiene bene) scrive Ani Di Franco. Ogni oggetto creato dall’uomo, una volta prelevato dall’artista è posto così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria potrebbe persino mutarsi in un’opera d’arte, ci insegna con la sua “fontana” Duchamp. Le cose sono così come sono spetta a noi riportarle all’arte, secoli prima affermava Federico II.

A cosa ci rimanda tutto ciò? I Social network sono in pochi anni diventati lo strumento che in assoluto produce e mantiene le relazioni sociali tra le nuove generazioni, nuove agorà di scambio di informazioni e idee. Le merci, per evidenti ragioni sono, almeno per adesso, tenute fuori ma se consideriamo il valore del prodotto economico dei servizi rispetto alle merci e il peso economico che queste hanno nella nostra economia, ci rendiamo conto dell’equivalenza tra il vecchio e nuovo foro della società contemporanea.

Similitudini di linguaggio e concettuali si sono già consolidate nella costruzione di questo nuovo spazio: portali di accesso, autostrade telematiche, finestre di dialogo, rimandano a spazi o elementi fisici colle-gando in maniera segni e cose tra loro altrimenti non relazionabili. In questo nuovo spazio ci si muove, seppur lessicalmente, come in uno spazio fisico, si naviga in rete, si aprono finestre, si chiudono appli-cazioni. Nella nuova dimensione ci si può anche perdere, come in “Lost in Google[3]. L’avanguardia non è più arte ma tecnologia, anche questa immateriale. Migliaia di designer vengono impegnati nel mondo per progettare e realizzare dispositivi, tablet e smartphone, necessari per trasmigrare in questo nuovo spazio. La manualità, la tecnica e l’ingegno sono completamente dedicate ai nuovi strumenti di connessione alla rete, così come i bilioni di dollari investiti. La connettività tra il materiale e l’immateriale travalica i suoi confini, come fece un tempo l’arte con l’architettura. La casa è domotica, connessa con i suoi abitanti, dialoga continuamente con loro: accende il camino prima che i suoi abitanti rientrino, partecipa alle attività domestiche e chiede aiuto in caso di infrazione.

Come ogni nuovo continente, il nuovo non-luogo viene colonizzato da culture e civiltà diverse e diversificate che ne caratterizzeranno e comprometteranno nel tempo il suo sviluppo. Non è, infatti, un caso che gli Stati Uniti erano una colonia britannica, il Canada, francese, il Messico e buona parte del Sud America, spagnola, e la restante portoghese. Un imprinting culturale oltre che linguistico che si è conservato nei secoli.

La sfida adesso è lanciata: quale sarà l’imprinting che la cultura architettonica contemporanea riuscirà, prima che sia troppo tardi, a dare a questo nuovo spazio dove si relazionano e relazioneranno sempre più le persone?Facciamo un altro piccolo passo indietro. Bill Gates, fondatore di Microsoft, negli anni novanta pubblica un saggio scritto a quattro mani dal titolo “La strada che porta al domani”[4]. Letto a quell’epoca il testo poteva essere considerato, come tanti altri pubblicati da manager di successo, un’autobiografia celebrativa di un giovane ragazzo diventato miliardario per aver investito tutto il suo tempo e i suoi pochi soldi in un azienda che scalerà le vette di Wall Street. Dal testo estrapoliamo due concetti che apparivano allora secondari. Il primo l’ammissione di colpa per aver, nella sua prima fase di sviluppo dei suoi software, sottovalutato l’apporto del web e di internet[5]; il secondo, la visione che il futuro sarà costituito da un capitalismo “senza attrito”, fondato ed alimentato dalla connettività tra le persone. Il testo si chiudeva con l’affermazione che la diminuzione del lavoro prodotta dalla diminuzione dell’attrito del capitale avrebbe aumentato il tempo libero che sarebbe stato impegnato nel soddisfacimento di bisogni intellettuali favoriti dalla connettività. La bolla economica statunitense ha infatti creato milioni di disoccupati che impegnano il proprio tempo postando e messaggiando connessi ai Social network. I due aspetti, apparentemente slegati dalla critica architettonica devono essere, al contrario,considerati alla stregua dei primi dolmen della storia dell’architettura. Attendiamo, inermi, le nuove evoluzioni delle tecnologiche. Una volta, queste venivano considerate scoperte, come il Nuovi Mondi di Colombo, Vespucci o Magellano: si scopriva il fuoco, la gravità, le radiazioni, la penicillina. Oggi la tecnologia crea nuova tecnologia, rendendo immediatamente obsoleta quella esistente. L’alienazione prodotta dalle nuove forme di comunicazione e relazione è dietro l’angolo, ma altresì le possibilità di socializzazione che esse offrono sono infinite. Questo nuovo spazio è vissuto quasi più dello spazio fisico, le nuove generazioni hanno più ricordi della loro vita postati nei server dei Social Network che nei cassetti delle loro scrivanie. Anche le rivoluzioni che per definizione nascono nelle piazze, hanno trovato nella rete il luogo dove si sono iniziati ad aggregare le istanze delle masse. Gli storici inizieranno a scrivere non più di rivoluzioni come quella di piazza mercato a Napoli del 1647 o di Piazza Tienanmen a Pechino del 1989, ma scriveranno della Primavera araba del 2011 nella nuova agorà di nome Twitter o Facebook.

Questi spazi immateriali posso essere anche invasi. “I barbari. Saggio sulla mutazione”[6] di Alessandro Baricco ci rappresenta una società in mutazione, dove i barbari non sono popolazioni primitive di nomadi che premono sulle mura dell’impero ma una giovane generazione con elevate conoscenze tecnologiche prive di riferimenti culturali, una generazione che non ha bisogno di sapere nulla perché tutte le informazioni sono facilmente recuperabili sui motori di ricerca come Google; non ha bisogno di visitare o conoscere nessuna città, perché possono farlo utilizzando Street View comodamente dal PC; una generazione che condanna o assolve ciò che accade nella “piazza immateriale”, così come nelle arene dell’antica Roma, con il “pollex versus” che assume oggi la più semplice connotazione di “Mi piace”[7]. Questo spazio immateriale è per tutto quanto detto “la scena dove la nostra vita si svolge”, come scriveva Zevi. Questo nuovo spazio sarà l’architettura del prossimo futuro.

Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, i primi maniscalchi del nuovo spazio, hanno definito quale potesse essere questa nuova scena, correndo il rischio di trasformarsi nei faraoni delle nuove piramidi segnando per sempre il cammino di questa odierna civiltà e lasciando a noi il solo compito di trascinare delle grandi pietre.

Note:

[1] B. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, 1948.

[2] In filosofia, contrariamente alla matematica, gli assiomi assumono il significato di verità evidenti tali che non necessitino di essere dimostrate; in matematica l’assioma è la condizione per la quale la dimostrazione del teorema è valida se è vero il postulato anche se non dimostrato.

[3]”Lost in Google” è una web-serie di successo pubblicata da The Jackal sul canale web di You Tube, ottenendo, oltre che diversi premi dalla critica cinematografica, centinaia di migliaia di visualizzazioni.

[4] B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1995.

[5] Nei primi anni novanta la piattaforma di navigazione nel Web era un software di nome Netscape, il colosso Microsoft dal ’95 iniziò una vera e propria lotta, violando le leggi antitrust, al fine di indebolire la presenza sul mercato di Netscape per sostituirlo con Internet Explorer, parte integrante del sul suo sistema operativo.

[6] A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2008.

[7] Il gradimento di un post è rappresentato dagli utenti dei Social Network dall’aggiunta di un “mi piace” che viene attivato da un icona a forma di pollice verso.